Cerco sempre almeno una volta all’anno di seguire un festival blues o almeno a forte connotazione blues. Quest’anno ho scelto di tornare a Piacenza dove sono già stato per due precenti edizioni. Chiarisco subito che le diverse motivazioni che mi hanno portato di nuovo a Piacenza nascono in primis dalla stima che provo nei confronti dei due direttori artistici: per la musica il grande Davide Rossi e per la letteratura il grande Seba Pezzani due persone dotate di grande competenza e capacita, ognuno, naturalmente, per il suo campo di appartenenza, la grande professionalità di due straordinarie donne accomunate tra l’altro dallo stesso nome – Valeria – una responsabile dell’ufficio stampa, ma anche dolcissima e gentilissima fac totum tanto da trasformarsi anche in guida turistica accompagnando i vari ospiti del festival alla conoscenza di Piacenza (bellissima) e in alcuni dei magnifici borghi medioevali nelle vicinanze della città, l’altra responsabile del food, capace di soddisfare i più esigenti palati con delle T-bone che nulla hanno da invidiare alle sorelle Texane unendo un servizio in tempo reale condito da grande gentilezza, oltre naturalmente a tutto lo staff ormai rodata macchina da festival, ultima, ma forse prima, la formula del festival: musica e letteratura, occasione importante per vedere e sentire nella stessa location grandi musicisti e scrittori di fama internazionale. Perciò si toglietevi pure il dubbio perché la mia, è certamente una recensione di parte. Quattro giorni di festival, tra musica e letteratura di ispirazione o provenienza americana. Ecco che cos’è il festival “Dal Mississippi al Po” di Piacenza, giunto quest’anno alla sua nona edizione. Già, nona edizione. A un giro di boa dal primo importante anniversario, come sottolineato più volte dagli organizzatori. Perché di questi tempi anche una semplice ricorrenza assume valori a cui, fino a qualche anno fa, nessuno avrebbe pensato.
Nato come mera kermesse blues, il festival “Dal Mississippi al Po” ha presto assunto la fisionomia che tuttora mantiene, ovvero quella di manifestazione che procede su due binari quasi sovrapposti, a volte combacianti: musica e letteratura. Da sempre, musicisti soprattutto americani con una chiara propensione a raccontarsi e scrittori animati da una forte pulsione musicale (se non a loro volta musicisti) si confrontano a suon di blues, o meglio, sul terreno delle emozioni. Il format di questa nona edizione ha fatto la scelta , di concentrare gli eventi alla sera. Ma procediamo per ordine. L’apertura del venerdì sarebbe dovuta essere dedicata all’esplorazione del Texas come vero e proprio stato mentale. Il formidabile Joe R. Lansdale, uno degli autori americani più popolari in Italia nonché un amico di vecchia data di Piacenza, insieme a Glenn Felts, gestore del leggendario locale La Kiva, a Terlingua, nel lembo estremo di Texas che si incunea in territorio messicano, a sudovest, avrebbero dovuto raccontarci le contraddizioni e le suggestioni dello stato della stella solitaria. Avrebbero, perché le pessime condizioni climatiche hanno costretto gli organizzatori a un piano B, con inevitabili ritardi. Ma Lansdale e Felts sono comunque rimasti per tutta la durata della manifestazione e hanno avuto modo di ripresentarsi al pubblico. Ma un po’ di parole “blues” ci sono state comunque, con la presentazione dell’unica biografia di Willy DeVille al mondo, quella scritta dal giornalista Mauro Zambellini, in questo caso intervistato dai colleghi Blue Bottazzi ed Eleonora Bagarotti.
In compenso, la musica di Greg Izor (che in Texas, per l’esattezza ad Austin, ci vive) e della sua band italiana capitanata da Max Prandi ha scaldato l’ambiente, con un’armonica a bocca molto interessante, dalla tecnica inusuale. Subito dopo il concerto della pantera nera Malina Moye, Funk/Soul disegnato molto bene dalla tuta azzurra della Moye e sostenuto da un’ottima band italiana. La pessima acustica del palazzetto in cui il festival è stato costretto a riparare non ha certo aiutato e, forse, la mise vistosa della cantante chitarrista ha svolto metà del lavoro (della serie, molto fumo e non altrettanto arrosto), ma la simpatia della ragazza e il tiro funk della musica hanno ugualmente scaldato gli animi. Venerdì, fortunatamente, il clima autunnale ha lasciato il posto al sole, consentendo uno svolgimento più consono del programma previsto. Ad aprire le danze, un interessante giallista norvegese, Thomas Enger, a sua volta e non per caso musicista. Enger, infatti, oltre che giornalista è stato autore di colonne sonore e da qualche anno, dopo l’inatteso successo internazionale di Morte apparente, si è dedicato alla scrittura a tempo pieno. A fargli da simpatica spalla, lo scrittore nonché esperto di letteratura nordica Andrea Ferrari. Da sempre, il festival “Dal Mississippi al Po” fa il possibile per rendere impalpabile la sottile linea divisoria tra musica e letteratura, a partire dalla scelta dei suoi ospiti, come già sottolineato, ma anche facendo accompagnare gli eventi letterari da momenti musicali acustici.
A fare da commento sonoro a Enger ci ha pensato Kasey Lansdale, figlia di Joe Lansdale, cantante country & western il cui nuovo CD uscirà a metà di agosto, con la sapiente produzione di John Carter Cash, figlio di Johnny Cash e June Carter, uno dei più stimati produttori di Nashville. Accompagnata alla chitarra da Roldano Daverio, Kasey ha poi preso la scena insieme alla rockband italiana che da qualche anno la sostiene, I RAB4, reduci tra l’altro, da un tour che ha attraversato ben tre stati americani, Colorado, New Messico e Texas, una bella esperienza musicale, dalla quale Seba Pezzani fa nascere un magnifico libro di viaggio AMERICRAZY foto di copertina di Davide Rossi (a volte ritornano). Un country moderno, venato di rock, con la bella voce e la bella presenza della bionda cantante del Texas orientale. Subito dopo, tanto per suggellare una serata un po’ al femminile e un po’ alla norvegese, il duo “Women in Blues”: Rita Engedalen e Margit Bakken, due chitarre acustiche e due voci calde e grintose dalla fredda Oslo, in un viaggio a ritroso nella tradizione del blues che si fa donna: Memphis Minnie, Bonnie Raitt e altri classici ancora, a testimonianza del fatto che il blues è ormai un lessico universale o, forse, che lo è sempre stato. Sabato sarebbe dovuta essere la serata di maggiore afflusso e, in effetti, la è stata. La scelta della direzione artistica del festival di invitare Edoardo Bennato può aver lasciato perplesso qualche purista, ma il cantautore napoletano è stato uno dei primi, se non il primo in assoluto, a utilizzare un linguaggio americano per creare la sua musica. Anzi, a suo dire, il suo uso dell’armonica a bocca è un’influenza diretta della passione del musicista di Bagnoli per Mississippi Fred McDowell.
Ma procediamo per gradi. Prima del suo concerto, c’è stato spazio per una breve ma intensa chiacchierata del giornalista John Vignola sull’idea di rappresentare in radio una serie di profili di band o musicisti del passato, attraverso una rilettura del loro percorso artistico. Subito dopo, “la cupa notte d’Albione”, un appassionato incontro con due grandi scrittori inglesi, Tim Willocks e Glenn Duncan, sotto la sapiente conduzione del romanziere Giuliano Pasini. Willocks, vecchia conoscenza del festival piacentino, è autore di noir durissimi, mentre Duncan, uno scrittore travestito da rocker, scrive fosche storie di lupi mannari. A fare da commento sonoro, i toni blueseggianti di Linda Sutti e della sua band, una cantante piacentina di notevole talento intimista che ha preparato il terreno per la band di Edoardo Bennato. Quello del cantautore partenopeo è stato un ritorno ai tardi anni Settanta, un concerto rock e blues, con due ottimi, giovani chitarristi che hanno ridato linfa ai suoi classici. Siccome la scaletta della serata è stata ritardata dal protrarsi del soundcheck, non è mancata qualche isolata e insensata protesta, considerato che il concerto di quasi due ore si è concluso a mezzanotte e mezza. Quella della domenica è stata come sempre la serata di chiusura del festival, con il giornalista piacentino Pietro Corvi che ha presentato al pubblico lo scrittore horror Pietro Gandolfi, prima che Dale Furutani, romanziere nippo-americano, venisse sapientemente introdotto da Maurizio Matrone. Il tutto appena prima dell’esibizione di Juke Ingala & The Jacknives, tanto swing e blues elettrico retrò per introdurre lo spettacolo ipnotico di Moreland & Arbuckle, un trio del Kansas che fa del minimalismo sonoro il proprio stendardo.
Sorrette da una batteria granitica che deve sopperire alla mancanza del basso, l’armonica e la voce di Dustin Arbuckle e la chitarra di Aaron Moreland non hanno lesinato intensità. Dopo una partenza pacata, a suon di classici, tanto per confermare la sua provenienza elettiva, il trio di Wichita ha pestato duro, portando la manifestazione alla sua degna conclusione. Malgrado le difficoltà del momento, anche quest’anno lo sforzo del festival è stato notevole, sostenuto dalla voglia di dare linfa alla vera cultura popolare e di abbattere definitivamente le barriere fisiche e psicologiche tra artisti e pubblico.
Gianni Melis
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