Chicago On My Mind
di Matteo Bossi
Avevamo incontrato, anni addietro, Toronzo Cannon per un’intervista pubblicata nel n. 134 de Il Blues. Toronzo al tempo si stava affermando sulla scena di Chicago grazie a due promettenti album su Delmark ed aveva da poco firmato per Alligator, un passaggio importante per lui. Il suo posto nella scena di Chicago si è ormai consolidato e in questo mese di giugno pubblica “Shut Up And Play!”, terzo lavoro per la casa di Bruce Iglauer. Ne abbiamo parlato con lui nel corso di una lunga video conversazione. Toronzo è alla guida, non di un bus visto che si è ritirato dopo ventisette anni di lavoro per la Chicago Transit Authority, ma della sua auto, accosta subito per parlare, dimostrando la simpatia e acutezza che gli ricordavamo. Le stesse qualità che si ritrovano nella sua scrittura.
“Shut Up And Play!” è il terzo lavoro per Alligator e sei ormai divenuto una figura di riferimento per la scena blues di Chicago. Come ti fa sentire?
Mi mantiene umile, mi fa desiderare di essere migliore. Non è qualcosa che mi distrae, il mio focus è sempre stato di essere parte della scena blues di Chicago, di un movimento…Buddy Guy è il migliore, ma sono orgoglioso di rappresentare Chicago, la città, non solo me stesso. Vengo da lì spiritualmente, ogni volta che salgo sul palco nel cuore e nella musica sento di rappresentare la città. A volte, quando parlo con Bruce (Iglauer), lui si mette a ricordare i miei eroi, Albert Collins, Albert King, Hound Dog Taylor…piccoli aneddoti, conversazioni con tanti di quelli che ha incontrato, essendo in questo ambiente da qualcosa come cinquantasei anni, ha avuto modo di conoscere da vicino tutti questi grandi musicisti blues di cui abbiamo soltanto letto, ha persino fatto contratti con alcuni di loro.
Dato che hai citato Albert King, di recente è venuto a mancare Donald Kinsey che aveva suonato con lui, oltre ad aver suonato, come te, reggae. Eravate amici con Donald?
Si, ma ho saputo che aveva suonato reggae solo dopo che ho cominciato a far parte del mondo del blues. Da lì in poi ho appreso molto altro. Conoscevo i Kinsey Report e la loro band di famiglia, col padre, ma non sapevo molto della sua storia personale fino a che non ci siamo conosciuti. A quel punto ho capito – oh ma è lui che suonava “Johnny B. Goode” su quel disco di Peter Tosh, ha suonato anche con Bob Marley e Albert King! – Tutte queste cose le ho sapute dopo. Siamo diventati amici. La prima volta che me ne sono accorto è stata quando è venuto ad uno dei miei concerti e di solito i musicisti non lo fanno. O magari dicono che verranno ma poi non succede. Suonavo al Rosa’s e lui venne al concerto, non aveva con sé la chitarra ma fu un bel gesto già solo la sua presenza. Ci si sente apprezzati.
Eri amico anche di Rev. John Johnson, il proprietario del Maxwell Street Blues Bus? Anche lui è scomparso qualche anno fa.
Conoscevo Reverend Johsnon da molti anni. È stato il prima a farmi un discorso, sai quando un uomo più vecchio vede qualcosa in un musicista giovane. Suonavamo a Maxwell Street con alcuni amici e vide il mio modo di suonare e mi parlò come un nonno al nipote. Mi disse, “voglio darti qualcosa, un regalo”. E mi diede il CD di Luther Allison “Live In Montreux-Where Have You Been?”, credo fosse il 1999 0 2000. All’epoca non sapevo nemmeno chi fosse Luther Allison, ma ascoltai il CD e da allora sono un fan di Allison, grazie al disco regalatomi da lui. Ora sono anche parte della famiglia Alligator, casa anche di Luther. Un bel ricordo, la chiusura di un cerchio. Sono passati venticinque anni da allora ma è qualcosa che non mi dimenticherò mai. Aveva visto qualcosa in me che non sapevo nemmeno di avere. Voleva che firmassi dei documenti per recuperare il bus ma non ci siamo riusciti, lo hanno ritrovato ma non si è trovato un accordo per ripristinarlo.
Venendo al nuovo album, quante volte ti sei sentito dire da qualcuno “stai zitto e suona”, per citare il titolo?
(Ride) Beh per me non è soltanto per quel che dico, è questione di politica…alcuni non vogliono sentire per che cosa hai il blues. Vogliono solo sentire il blues. Ma io racconto nelle canzoni il perché. Talvolta devi coprire la medicina con un dolce! Non per ingannare l’ascoltatore ma per far sì che possano vedere la foresta per gli alberi. Non mi si può chiedere di essere un bluesman, un musicista e di raccontare le mie storie, di amore, perdita, cose della mia vita che rimpiango, ma non le si vuol sentire quando ne parlo. Se le metto in una canzone magari le ascoltano. C’è una differenza tra sentire ed ascoltare. Puoi ascoltare gli uccelli, ma riesci a sentirli? Stessa cosa con la musica. La gente ascolta e basta, cantano sopra una bella melodia, ma quando scrivi una canzone vorresti che la gente sentisse le parole, non le ascoltasse, così da raggiungere una connessione più profonda, chissà magari qualcuno si rende persino conto di aver sbagliato. Oppure trovano una giustificazione a quanto già pensano. Qualcuno le definisce canzoni di protesta, ma lo è solo se sei in disaccordo! In ogni caso, che tu sia d’accordo o meno con alcuni versi delle mie canzoni, una volta pubblicate, non sono più mie, appartengono a chi le ascolta.
Alcuni tuoi brani, pensiamo a “Can’t Fix The World”, “Insurance” sul disco precedente, la stessa “Shut Up And Play”, con versi come “no 40 acres and a mule for my family when they set us free…” sono esempi della tua scrittura, in questo senso.
Sì ed è tutto documentato, non è una mia storia di fantasia. Non cerco di coprire quello che l’America ha fatto. Cosa che invece stanno cercando di fare, mettono al bando libri sulla storia degli afroamericani, perché non vogliono sembrare cattivi agli occhi dei loro figli. Pensano che questo alimenti l’odio in American. Ma la storia è storia. Come si può imparare qualcosa se non vuoi sentirti a disagio? Dovresti voler fare di meglio, se non è così ecco che si cerca di nascondere le cose, perché ci si vergogna della propria storia. E potresti ripeterla se continui a bandire libri, in modo che io non possa insegnare ai miei figli o nipoti la storia afroamericana e cosa noi rappresentiamo per questo paese, facendo questo non si aiutano certo i rapporti tra razze. Anzi è come venir relegati a cittadini di seconda classe ancora una volta. Ma non sarei una persona onesta, né un bluesman onesto se non scrivessi canzoni del genere. Sono questioni che devono essere affrontate, non soltanto, “my woman left me…” o “my woman didn’t put food on the table…”, il blues è molto più di questo. Per questo ho scritto un pezzo come “Insurance”.
O uno come “Message To My Daughter”, una canzone molto personale.
C’è stato chi mi ha detto che non avrei dovuto includerla nel disco, perché troppo personale. Ma per me, lo dico ancora una volta, l’essenza del blues è nel cantare dei tuoi problemi. Come puoi dirmi, da padre, che non posso rivolgermi a mia figlia in una canzone mentre sto attraversando un divorzio? Altri uomini e donne ci sono passati, perciò non sono certo l’unico a cui è successo…però questa persona pensava fosse troppo personale ed ha cercato di mettere a tacere la mia voce. Ma non ha funzionato. Sono contento di poter scrivere canzoni in cui si identificano anche altre persone, non solo, appunto, “I’ve got no money…” o “we’ve got to party all night long…”, ci sono troppe cose del genere. Abbiamo bisogno di canzoni di sostanza, che restino attaccate. Voglio che il mio album sia fatto di questo.
La tua scrittura è cambiata negli anni? È un processo che hai affinato man mano oppure è rimasto simile?
Penso che talvolta puoi trovare un modo migliore di far passare un messaggio, più passa il tempo. Prima dell’Alligator, la Delmark mi lasciava incidere canzoni di sei o sette minuti, perché hanno una sensibilità come etichetta di jazz e blues e lasciano gli artisti andare dove vogliono. Come gli artisti jazz appunto. Quando sono arrivato a firmare per Bruce, lui l’ha reso un processo più autonomo. Mi diceva, “come puoi rendere più incisivo questo verso usando meno parole?” Mi lanciava sfide di questo tipo. E questo ha affinato la mia scrittura e mi ha portato a pensare in modo diverso. Quando scrivo un verso penso, “cosa ne direbbe Bruce?” Mi ha portato ad essere più conciso, usare meno parole. Bruce viene dai tempi in cui c’erano canzoni solide canzoni di tre minuti adatte a passare in radio, anche se ad esempio mi ha lasciato carta bianca su “Shut Up And Play”, la canzone, mi ha detto, “ti lascio il controllo di questa”. Penso che la mia scrittura sia maturata, senza cadere nelle solite trappole.
Nei tuoi dischi ci sono dei brani acustici, hai mai pensato di incidere un intero album così?
Sì! Sui miei dischi per Delmark, quando li ho riascoltati, penso ci siano canzoni valide, anche se non le suono più. Se dovessi farlo, mi piacerebbe preparare un set acustico di una decina di mie canzoni, con magari un secondo chitarrista al mio fianco. Meno strumenti ci sono più spazio ha la storia per emergere. Posso variare il tempo un po’ di più senza avere batteria, basso e tastiera alle mie spalle, rallentare un po’. Fare un Unplugged, come quelli di MTV, raccontando le storie dietro le canzoni, mi piacerebbe molto.
Hai smesso col tuo lavoro di guidatore di autobus per la CTA, è stato, immaginiamo, un grosso cambiamento per te?
Lo è stato, anche perché sono andato in pensione e ho divorziato nello stesso periodo. Non è stato un momento felice per la mia vita…stavano succedendo molte cose. E probabilmente è stato per questo che mi ci è voluto così tanto per scrivere quest’album. Pensavo che i problemi mi avrebbero spinto a scrivere un album più in fretta, ma il cambiamento per me è stato anche nel non sapere quale sarebbe stato il mio futuro. Ci sarebbero state perdite di soldi e sentimenti da ricostruire con la mia ex moglie e con mia figlia. Quando rompi con qualcuno non può essere finita lì, devi riportare il rapporto ad un livello di rispetto reciproco, soprattutto con persone con cui hai trascorso molti anni o con cui hai dei figli. Stare bene con me stesso è stata la prima cosa da fare, essere onesto. È stato un processo che ha portato ad alcune canzoni del nuovo disco. Le relazioni fallite, la canzone “Him” parla di una donna. Quanto al lavoro, sono stato fortunato a completare i miei ventisette anni e poter andare in pensione avendo qualcosa su cui contare. Anche non doversi svegliare alle cinque o alle sei ogni mattina è una gran cosa.
Com’è la situazione a Chicago dopo la pandemia? Ci sono locali che non hanno riaperto?
Alcuni hanno chiuso, un altro ha riaperto solo qualche settimana fa, Lee’s Unleaded, nel south side. Altri bar che non avevano serate blues ora ne hanno una, posti non dedicati in esclusiva al blues, magari al giovedi sera. Attraggono un po’ dell’attenzione che i club di blues di Chicago erano soliti avere.
Hai avuto degli ospiti nei tuoi dischi, qui Matthew Skoller all’armonica, in passato Billy Branch o Joanna Connor. In genere tuoi amici con cui hai suonato prima?
Sì e Nora Jean Wallace , Carl Weathersby sul mio primo album…al momento mi piacerebbe collaborare con Gary Clark Jr, siamo diventati amici e poi scrivere una canzone per Shemekia Copeland, magari suonare anche per lei.
Anche Shemekia ha spesso cantato canzoni con messaggi importanti nei suoi lavori.
Sì e noi non accusiamo nessuno nelle nostre canzoni…Considerando poi che ho una figlia sono sempre stato attento a come trattare le donne, non tenerle ai margini. Spero che potremo far nascere una scintilla di consapevolezza in chi ascolta. Cerco solo di fare la mia parte, come Shemekia o Selwyn Birchwood. Anzi esorto i miei colleghi bianchi in ambito blues a scrivere canzoni sull’ingiustizia che vedono in America, di quello che i loro amici neri passano e non solo di birra, barbecue o la mia donna mi ha lasciato…dove sono i nostri alleati blues? Li vedo più nel pubblico. Ma anche i miei amici bianchi dovrebbero scrivere su quel che accade. Però se pensi che parlare di politiche razziali in America sia taboo o che possa alienare alcuni fan, beh dimmi da che parte hai il cuore. Pensa a “What’s Going On?”, la Motown è stata importante per il Civil Rights Movement o gli Staple Singers, Curtis Mayfield, Syl Johnson con “Is It Because I’m Black?”.
Prima di dedicarti al blues da giovane ascoltavi John Mellencamp, a sua volta autore di canzoni che raccontano una certa America.
Oh vero, anche prima di ascoltare reggae e blues ascoltavo canzoni come “Rain On The Scarecrow” e dischi quali “Uh-Huh” o “The Lonesome Jubilee”…ero un suo grande fan da quando si chiamava ancora John Cougar e poi John Cougar Mellencamp e infine solo John Mellencamp. È uno dei miei eroi, le sue cose acustiche sono grandi ed è un attivista, vedi quel che ha fatto col Farm Aid…mi piacerebbe incontrarlo un giorno. Anche a lui hanno detto di star zitto a suonare, proprio di recente, prima di una canzone acustica, stava parlando della vita o forse di politica, ma qualcuno dal pubblico gli ha urlato “di suonare e basta” e lui si è arrabbiato! Gli hanno detto di tacere e suonare, insomma, è una cosa universale. Qualcuno non è a suo agio, vuole solo sentire la canzone e rivivere i bei ricordi, magari il primo appuntamento con la ragazza o qualcosa del genere…ma non gli importa di sapere da dove viene la canzone e che cosa ti induca a scrivere una canzone così. Se possono farlo a Mellencamp o B.B. King, quando verso la fine della sua vita qualcuno gli diceva che parlava troppo sul palco…sono in buona compagnia.
Tuo nonno e tuo zio frequentavano il Theresa’s Lounge, cosa ti direbbero oggi, vedendo il tuo percorso nel blues?
Posso dirti per certo, perché me lo conferma mia madre, che mio nonno sarebbe venuto ad ogni mio concerto! Era fiero di me. Di qualunque membro della famiglia si distinguesse in qualcosa. Ma ho cominciato davvero solo dopo la sua scomparsa. Mia madre mi ricorda il tipo di spirito che il nonno aveva riguardo la musica…lui veniva dal Sud. Ho scritto una canzone per lui, è sul nuovo album, “Had To Go Through It To Get To It, parla del viaggio di un afroamericano che arriva a Chicago dal profondo Sud, il Mississippi, per cercare una vita migliore per sé e la sua famiglia. Si è preso cura di me e di tutti noi. Ho dovuto chiamare mia madre per chiederle in quale anno si era trasferito a Chicago e lei mi ha risposto che era stato nel 1943, così l’ho messo nella canzone. Arriva un momento in cui rifletti su te stesso, come artista e allora scrivi una canzone su te come persone, la tua crescita, la tua eredità e la tua famiglia. Da quando ho smesso col lavoro giro per la città con un monociclo elettrico. Vado nel mio vecchio quartiere, solo per ricordare i luoghi in cui sono cresciuto, dove ho imparato rispetto e paura, dato che non era gran che come quartiere…ma tutto questo mi ha reso la persona che sono oggi. Sono un brav’uomo perché ho passato queste cose. E se posso scriverne in una canzone forse la cosa diventa terapeutica e di aiuto anche per altri. Se sei onesto con te stesso respiri meglio, non ho filtri, la persona che vedi sul palco è la stessa che ha scritto la canzone. Non vivo in una fantasia né metto in scena un personaggio. Questo sono io.
Con la scomparsa di molti artisti delle generazioni precedenti alla tua senti di avere una responsabilità anche verso gli artisti più giovani?
Sì e dico sempre due cose ai musicisti giovani quando mi chiedono cosa serve per passare ad un livello successivo, procurati un passaporto e scrivi le tue canzoni. Scrivi di quello che conosci. C’era un ragazzo giovane, Hayden, non mi viene in mente il suo cognome ora, che ha aperto un mio concerto in New Jersey e mi ha chiesto consiglio. Circa sei mesi dopo ero in Francia e l’ho incontrato nella lobby dell’hotel che suonava la chitarra acustica. Mi disse che aveva seguito il mio consiglio sul passaporto. E ora riceve anche attenzione dai media. Un’altra ragazza giovane di nome Alicia “Ya Yah” Townsend, una cantante blues di Chicago emergente, mi ha rivolto le stesse domande…Due mesi dopo aveva avuto il passaporto, un musicista dall’Argentina, Ivan Singh, le ha scritto chiedendole se avesse un passaporto e potesse andare in Argentina. E lei ci è andata. Questo è il mio modo di restituire qualcosa, essere presente per la prossima generazione…ma ho ancora molte canzoni da cantare e da scrivere! Non sono ancora arrivato. Circa tre mesi fa sono andato a sentire un giovane musicista al Rosa’s, lui ha ventinove anni e io ne ho cinquantasei. Sono arrivato lì e ho visto Jimmy Burns, uno dei miei eroi, seduto al bar. Jimmy ha ottantuno anni e probabilmente ne aveva cinquantaquattro la prima volta che l’ho visto, mentre io era sulla trentina. La storia non finisce mai. Questo ragazzo tra ventincinque anni avrà la mia età e io sarò Jimmy Burns! Il ciclo della vita blues. Quando guardo dei video di Billy Branch, Lurrie Bell, Carl Weathersby…o anche Buddy Guy, a volte cerco di ricordare che età avevano. Sai Billy ha settant’anni ora ma quando lo vedi suonare e ne aveva quaranta o cinquanta, beh le cose acquistano una prospettiva. Cerco di essere parte della comunità blues, tra vent’anni farò parte del folklore del Chicago blues, spero si dirà di me che ero onesto, rispettavo gli anziani e ho fatto la mia parte.
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