Come ci racconta lo stesso Tommy nell’intervista a Matteo Bossi (leggi qui) questo disco è ben diverso dal precedente, “A Bluesman Came To Town”, che ci raccontava quasi l’odissea di un moderno Ulisse con in mano la sua chitarra, e la differenza principale sta nell’essere quasi registrato dal vivo, seppure Castro e la sua band si trovassero negli studi Graseland di Kid Andersen. Una carriera lunga ben quattro decadi, e 17 album realizzati, questo il pedigree di Tommy Castro, dalla California, terra sempre più prolifica per il blues e la musica afroamericana in particolare, quasi quanto Nashville, the music town, stia diventando ultimamente la patria non solo del country ma del music business (come tutto negli USA lo zampino delle tasse più basse che altrove è sempre da considerare oltre alla centralità rispetto alla vastità della nazione). Accompagnato da Mike Emerson alle tastiere, Randy McDonald al basso e Bowen Brown alla batteria, ovvero i fidi Painkillers, Tommy Castro si avvale di diversi ospiti illustri, oltre ovviamente a Christoffer “Kid” Andersen, che da polistrumentista passa senza difficoltà dal basso alla chitarra e al piano. Una nostra vecchia conoscenza, Billy Branch, presta la sua armonica per “Ain’t Worth The Heartache “, mentre nella divertente “Keep You Dog Inside” accanto a Tommy che si dedica alla resonator guitar, ecco alla voce i Sons Of Soul Revivers, ma il disco inizia con “Can’t Catch A Break” che attacca con un ritmo sinuoso e avvolgente, pur parlando di sfortuna e problemi, e dell’impossibilità di trovare un attimo di riposo (qualcuno una volta, non ricordo chi, disse che la vita è un susseguirsi continuo di problemi da affrontare), nella successiva e fumosa “The Way You Do” Rick Estrin soffia inconfondibile nelle ance, e Chris Cain si dedica ai tasti bianchi e neri nel lentone “A Fool For You”, solo alcuni dei cameo di questo ottavo lavoro su Alligator, che possiamo confermare sia, come afferma Tommy Castro ” areal blues record, the way they would have made them back in the day”. “One More Night” ci riporta alla mente un musicista che abbiamo adorato da poco più che adolescenti, Studebaker John, visto dal vivo al Macallè Blues Festival molti anni fa, e che quest’anno suonerà in Norvegia al Blues In Hell, e rientriamo come per magia in quegli anni, cullati dal riff ipnotico della chitarra, per approdare al lento “Crazy Woman Blues”, e non poteva mancare l’onnipresente donna che dopo il folle amore riesce a strappare il cuore in pezzi piccoli piccoli, come sottolineano le note di piano, ricamate attorno agli assoli di Tommy. Ed ecco una lode alla bevanda nera che accompagna le mattine di molte persone (anche se quella in stile americano non ci fa impazzire), con tutto il ritmo ed energia che un risveglio dovrebbe avere, “Woke Up And Smelled The Coffee”, ma è “Freight Train (Let Me Ride)” con tanto di slide sembra scaraventarci giù dal divano per scatenarci in folli danze (“move your ass baby” mi sembra di sentire come da Red’s a Clarksdale), sebbene il sound non sia affrettato come quello di tante giovani band, ma sempre quell’imercettibile microsecondo indietro, dandoci la sensazione che tutto vada bene. Anche nella scelta dei brani Castro sceglie di seguire l’ispirazione, pescando da artisti come Wynonie Harris, Eddie Taylor, Jimmy Nolen e Johnny “Guitar” Watson, proprio perché solitamente non ce lo si aspetta, un modo forse, pensiamo noi, di esprimersi senza filtri, e dopo una lunga carriera Tommy se lo può davvero permettere. “Everywhere I Go” con il suo ritmo incalzante e l’energia che trasuda, non lascia spazio al respiro, un’immersione in apnea, dopo non aver nemmeno reimpito fino in fondo i polmoni, lasciandoci tutti con il fiato corto, quasi stessimo rincorrendo quel qualcosa, fama, felicità, amore, soldi o forse il senso della vita, che ogni mattina ci fa alzare dal letto già con l’ansia e la tachicardia, compagna inseparabile della vita moderna nelle grandi città. Per non dimenticare di lasciarsi andare al piacere del ballo, ecco “Bloodshot Eyes”, una canzone quasi anni ’60, che trascinerà sulle piste molti nostalgici di quel periodo, in cui magari non erano neppure nati, in cerca di sapori autentici e sensazioni vere, che un paio di scarpe lucide, la brillantina (come diceva mio zio) ed i risvolti ai jeans possono quasi magicamente regalarci. Ancora una volta un simpatico e allegro vecchietto come Tommy Castro (classe 1955) riesce a scuoterci le budella fino all’osso, e a dimostrare che l’età è solamente il modo che abbiamo di contare i giri del nostro pianeta attorno alla stella che ci riscalda. Una cosa però è certa, quelli come Castro che hanno attraversato gli anni ’50 e ’60, e sono ancora in forma, essendo sopravvissuti a mille rivoluzioni di costume, società, tecnologia, abitudini e persino clima, hanno una scorza difficile da scalfire. Non è un caso che molti giovani guardano i loro sorrisi rugosi con ammirazione e quasi invidia. Non tutti ce l’avrebbero fatta a mantenersi fedeli a se stessi con tutte le tempeste attraversate. Io sicuramente al loro posto sarei naufragato e mi sarei perso molto prima.
Davide Grandi
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