Maledetto affitto! Il titolo ci riporta inequivocabilmente ad un problema di vita quotidiana che prima o poi ognuno di noi, tranne i pochi che discendono da Rockefeller (anche se dubito ascoltino blues), ha vissuto. La copertina poi, quasi come uno schiaffo inatteso, ci lascia perplessi, a metà tra uno scatto dall’ultimo film dei fratelli Cohen (ancora da girare), ennesima fotografia dell’America, e in fondo di tutti noi, e dei personaggi bizzarri che la abitano, attraverso le storture e la follia dell’esistenza, ed un horror thriller, forse per il martello da operaio della ferrovia, quasi a suggerirci che quella coppia insospettabile di esseri umani potrebbe essere l’ultima finestra sull’esistenza, se mai li dovessimo incontrare nel solito pellegrinaggio sulle highway alla scoperta di chi siamo veramente. E le note del primo brano “Take a Ride” chiariscono che siamo su un convoglio (l’onnipresente treno dei bluesman di un tempo) che ci poterà lontano dalla vita di tutti i giorni (non è questo in fondo quello che ci si aspetta da un buon disco o un buon libro?). Suoni analogici, echi di registrazioni dal vivo, la mancanza di sovraincisioni (o se presenti davvero impercettibili), e un amore incondizionato per personaggi da tempo scomparsi come Hound Dog Taylor, e il clima si modifica da brano a brano, pur restando fedele a sé stesso, con “Every Drop” ad esempio riprende tonalità prevalentemente basse, in un caleidoscopio a spirale che ci trasporta nel paese di Alice (ma lo specchio riflette noi stessi oppure al di là il mondo è diverso?). Dopo il debutto nel 2022 con l’omonimo “Dig 3”, nominato miglior album blues dalla rivista Mojo, c’è spazio anche per essere sdolcinati con “All The Love That I Got”, mentre lo strumentale “Chuck & Willie” sembra preso a prestito da una festa di paese, di quelle che riscopriamo in età avanzata, dopo esserci cresciuti ed averle rinnegate per tutto il periodo “adulto”, quello che “Southern Fantasy (Dig 3 Big Version)” ci riporta prepotentemente alla mente, con quel clima da disco music e persino pista di pattinaggio con palla riflettente da discoteca (Tony Manero scansati!). “Big Water” sembra magicamente rallentare lo scorrere del tempo, ipnoticamente sostenuto dal foot drum, nonostante parli di qualcosa con cui conviviamo ormai da tempo in questi anni di riscaldamento globale (che non ha niente a che vedere con fenomeni estemporanei, ma in fondo non vale la pena di spiegarlo a chi ostinatamente non vuole crederci), perché il livello dell’acqua sta inesorabilmente salendo (mentre scriviamo si è appena placata una pioggia incessante che da più di due settimane sta flagellando il nord Italia, con danni incalcolabili e numerosi dispersi). La sensazione è quella di un viaggio nel tempo, e forse anche nello spazio, e alla fine di tutto rimane senza risposta la domanda fondamentale scaturita da questo disco: saranno riusciti a pagare l’affitto? Nei primi dieci brani i Dig-3 fanno fede al loro nome e si presentano con un trio essenziale composto da Andrew Duncanson, voce e chitarra, Ronnie Shellist, armonica e Gerry Hundt al farmer foot drum e percussioni, basso, chitarra, armonica, mandolino ed organo. Per gli ultimi due pezzi la “big band” vede, accanto a Duncanson e Hundt, Lauren Dukes alle backing vocals, Aaron Whittier al basso e Rick King batteria e percussioni. Stiamo diventando ripetitivi, e fortunatamente riusciamo ancora ad accorgercene, colpa degli anni che passano e dei capelli bianchi che aumentano. E più lo scorrere del tempo ci trascina con sé, più ci vediamo modificare la percezione della realtà attorno a noi, e della musica con essa. Dalle note veloci e frenetiche, con volumi assordanti, ci ritroviamo sempre di più a cercare quell’angolo di quiete dove poter quasi sentire la Terra che ruota secondo dopo secondo, il Sole che ci trascina nella Via Lattea, ed i Raggio Cosmici che continuano ad attraversarci come per eoni senza lasciare alcuna traccia. Un disco come quello dei Dig-3 è la colonna sonora ideale per questi momenti di introspezione, dove guardare indietro per capire cosa ci abbia portato qui, e proseguire in avanti cercando di evitare ove possibile gli errori del passato. Il blues non mancherà mai, come musica universale che racchiude tutte le emozioni umane e non solo. Se si potesse sentire il respiro del creato siamo sicuri che qualche nota ci riporterebbe alle dodici battute, in questa danza cosmica che da qualche parte ci porterà e forse tra miliardi di anni ci vedrà tornare.
Davide Grandi
leggi l’intervista a Gerry Hundt
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