Cash Box King intervistati da Il Blues

The Cash Box Kings: Joe Nosek & Oscar Wilson – Intervista

di Matteo Bossi

Poche settimane prima della pubblicazione del loro nuovo album, “Oscar’s Motel”, il terzo per Alligator, abbiamo avuto la possibilità di parlare con Joe Nosek e Oscar Wilson, co-leader dei Cash Box Kings. Il gruppo  include musicisti di generazioni e percorsi differenti, quali il figlio d’arte Kenny Smith, Billy Flynn alle chitarre, John Lauler al basso e Lee Kanehira alle tastiere, e col passare degli anni e qualche cambiamento di organico, è rimasto  fedele all’amore per il Chicago blues tradizionale, soprattutto i suoni degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma non sono soltanto ottimi interpreti o revivalisti, la qualità della scrittura è ciò che li contraddistingue da molte band di oggi. Lo si può ascoltare anche dal nuovo lavoro, in cui spiccano canzoni quali “Trying So Hard”, scritta dal veterano Billy Flynn oppure il divertente duetto con Deitra Farr, “I Can’t Stand You”.

Joe, quando avete messo insieme il gruppo, oltre venti anni fa, avresti immaginato una evoluzione simile per la band?

Nosek: Beh, non avrei creduto possibile essere ancora insieme come band, suonare in giro per il mondo, incidere per Blind Pig prima e Alligator ora. Da ragazzo sarei morto d’infarto a saperlo. Perciò, si è stato un percorso incredibile, siamo orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto e guardiamo avanti verso il futuro, per portare la band ad un livello ulteriore.

Il primo album con la presenza di Oscar Wilson è stato il “Live At The Cuda Cafè”, che immortalava una serata del 2007 in Wisconsin. Era con voi solo da pochi mesi all’epoca?

Nosek: Si Oscar era con noi da forse sei mesi prima di quel concerto. Il nostro primo chitarrista e co-leader Travis Koopman teneva una blues jam…Oscar si era trasferito in Wisconsin, poco a nord di Chicago e andò a quella jam. Travis cominciò a parlare con lui e poi salì sul palco a cantare e lo fece molto bene. Ritornò la settimana dopo e Travis gli disse, “hey Oscar, cosa vorresti fare? C’è qualcosa che vuoi fare con la musica?” E lui gli rispose, “Vorrei suonare al Buddy Guy’s giù a Chicago”. E Travis, “beh noi ci suoneremo tra due settimane, puoi venire a cantare con noi”. A quel punto Travis me ne parlò e gli dissi, “Sei sicuro che questo tizio sia davvero bravo?” Sai ero un po’ nervoso all’idea di essere sul palco con qualcuno che non avevo mai conosciuto. Lo incontro proprio quella sera, lui canta tre canzoni e ottiene tre standing ovation, il pubblico è in visibilio. Così mi sono detto, “ok, ci lavoreremo su”. Ecco come è cominciata.

Wilson: È stato un caso…io lo chiamo un intervento divino. Perché tra tutte le persone alla jam quel giorno, questo tizio è venuto da me dal nulla, al mio tavolo e si è presentato, si chiamava Travis. Avevo cantato qualche volta con Johnny B. Moore o Melvin Taylor, in realtà il mio ex cognato era il suo bassista e talvolta mi chiamava per cantare una canzone o due, magari un pezzo di Johnnie Taylor, solo per divertimento. Non ho mai pensato sarei finito dentro questo mondo, come invece è successo. Credo sia stata una questione di essere al posto giusto al momento giusto.


Cash Box Kings live a Chicago

Cash Box Kings Chicago 2018, foto Gianfranco Skala©)


Ti eri trasferito fuori da Chicago allora?

Wilson: Non ho mai frequentato molto la scena di Chicago…tutto quello che so sul blues l’ho imparato dalla mia famiglia. Mio padre era un bluesman, è mancato due mesi prima che io nascessi, si chiamava H.S. Wilson. A casa mia c’era sempre del blues, mia madre metteva su dischi di Lightnin’ Hopkins, era il mio bluesman preferito. Mia madre diceva che mio padre suonava in quello stile ed era circa dieci anni più vecchio di Lightnin’, perciò forse aveva preso il suo stile da lui, chissà…ma era la cosa più vicina a quello che faceva lui e quindi quando faceva i mestieri di casa metteva la sua musica. Ecco come mi sono avvicinato alla musica fin da quando avevo tre anni. Poi organizzava fish fries e cose del genere e alcuni musicisti, come Honeyboy Edwards, Elmore James, Junior Wells, Big Smokey Smothers…tutti loro venivano a casa nostra. Era prima che fosse tutto elettrificato, se ne stavano li seduti a suonare le loro box guitar e le loro armoniche, io ero un bambino e me ne stavo lì a guardarli. Mi attraeva sin da quando ho memoria, sono del 1953 e mi ricordo persino di quando avevo tre anni e andavo in giro cantando canzoni blues! Da bambino, la prima volta che ho visto Honeyboy Edwards è stato ad un house party sulla 43rd Street, stavamo andando al negozio a comprare dei dolcetti e ho sentito una musica provenire dall’altro lato della strada,  dove c’era l’house party, ho attraversato e mi sono fermato sulla porta. Lui mi ha visto e mi ha detto, “hey  ragazzino ti piace il blues? Sissignore, gli ho risposto. Ma lo sai cantare il blues? Sissignore. E cosa vuoi cantare? E io, Still A Fool, Two Train Running! Giravo sempre attorno al blues, ho imparato tutti i generi di musica, blues, gospel, doo-wop, Motown, Philly’s sound…ma il blues è nel mio cuore.

Joe, in che modo la presenza di Oscar ha cambiato la band? Come si è sviluppata la vostra amicizia col tempo?

Nosek: Oscar è arrivato nel gruppo in un momento particolare, uno dei membri fondatori, Travis Koopman, stava per lasciare il paese e la band. Eravamo ad un bivio, mettere insieme un nuovo gruppo oppure dare nuova configurazione ai Cash Box Kings. La qual cosa aveva molto senso, sapevo infatti che se anche Oscar non aveva cantato a livello professionale fino ad allora, il blues era nel suo DNA, nel suo sangue. Ho pensato di trasformare le cose e cercare di farne un elemento chiave del gruppo. Ci è voluto tempo, come ogni cosa, ma non c’erano dubbi che avesse il talento e l’autenticità per farlo. Si è calato nel ruolo e ricordo quando gli ho detto che, “hey, dovremmo scrivere canzoni”. All’inizio disse, “no, non sono in grado di scrivere canzoni”…e ora lo fa naturalmente, ci sediamo con la chitarra e scriviamo. Ha imparato come essere un frontman e una sorta di ambasciatore per la band…è stato un viaggio, di quelli belli. Oltretutto è un caro amico ed è molto legato ai miei figli, è come un membro della famiglia e per lui è lo stesso. Non riesco a immaginare la band senza noi due a guidarla. Come ha detto, forse è stato davvero un intervento divino. Avere qualcuno come lui…io non ho un legame diretto con la cultura musicale, ma Oscar sì, quando hai Elmore James che suona ad un house party a casa tua, questo fa la differenza nella band.

Alla batteria c’è Kenny Smith, che ha circa la tua età ed è cresciuto col blues.

Nosek: In realtà ho incontrato Kenny quando avevo una prima blues band e una sera abbiamo aperto per Billy Boy Arnold e Kenny suonava la batteria con lui. Abbiamo cominciato a parlare al bar e gli dissi che volevo mettere insieme una vera band di Chicago blues tradizionale, con musicisti giovani. Lui rispose, “Beh, fammi sapere, perché è la mia musica preferita, sai la Chess, Muddy Waters, Howlin’ Wolf…ma la maggior parte degli artisti con cui suono oggi sono mio padre e i suoi amici. Mi piacerebbe suonare con ragazzi della mia età”. Tutto è iniziato così, quattro o cinque musicisti della nostra età, io e Kenny siamo coetanei. Poi quando abbiamo conosciuto Oscar ci ha dato un po’ più di legittimità.

Wilson: sono vecchio!

Oscar, in un brano come “Down On The Southside”, sul nuovo album, canti di cose che hai vissuto.

Wilson: Si, è tutto vero! Quei personaggi esistevano. E abbiamo persino lasciato fuori alcune parti, la canzone era più lunga. Allora c’erano taverne in tutto il quartiere, ad ogni angolo e succedeva sempre qualcosa. Potevi andare da un posto all’altro e non ti serviva nemmeno la macchina, anche se non c’erano molti DUI (drive under the influence ndt guida in stato di ebbrezza). Potevi andare a piedi da un locale all’altro. Ora è diverso non ci sono più locali, hanno cominciato a sparire mentre crescevo. La vecchia generazione ha smesso e i figli non hanno continuato e così via. Ma c’erano davvero quei personaggi, canto di mio cugino, mio fratello, le mie sorelle, altre persone del quartiere che erano nei locali a giocare a dadi…Ci si conosceva tutti, era come un villaggio, non c’erano stranieri e tutto quello che ti serviva era a portata di mano. Il mio mondo era tutto nel raggio di un miglio. E si trovava facilmente lavoro, c’erano le fabbriche, i macelli…Non ho mai pensato che sarei venuto oltreoceano né a che avrei cantato in una blues band. Ma in effetti ho cominciato a farlo a 53 anni!

Joe è arrivato al blues per un’altra via.

Wilson: Da suburbia!

Lo canti anche in una canzone.

Wilson: “Joe You Ain’t From Chicago”…si tutte le cose che scriviamo sono vere, qualcosa che è successo. Prendi “Gotta Move Out To The Suburbs”, è come il mio quartiere ora, la gentrificazione costringe la gente che ci abitava a spostarsi perché non può più permettersi di viverci. Ora ci sono starbucks ad ogni angolo!

Joe, sei cresciuto in Wisconsin e poi a Chicago?

Nosek: Ci siamo trasferiti nell’area urbana di Chicago da adolescente e poi sono tornato a Madison, Wisconsin per l’università. Chicago dista solo un paio d’ore, perciò ho mantenuto i contatti in tutti questi anni. Ho avuto la fortuna, da ragazzo, di poter iniziare a frequentare i blues bar e vedere Jimmy Rogers, James Cotton, Otis Rush, Buddy Guy, Junior Wells, Lockwood, i fratelli Myers…e la lista potrebbe continuare a lungo. L’impatto che hanno avuto su di me è stato molto profondo, mi ha cambiato la vita. Vedere questa musica suonata dal vivo mi ha fatto pensare di capirne di più, come facevano a farlo, magari un giorno avrei potuto suonare anch’io in un club. Ma allora sembrava un sogno.

Ho letto che all’università uno dei tuoi insegnanti è stato Jim Schwall?

Nosek: Si, conoscevo la Siegel Schwall Band, mi piacevano davvero. Il mio primo anno di college, per un po’ pensavo di laurearmi in musicologia, ero ad un corso di composizione, si studiava la musica barocca del XVII secolo, Bach, le corali…Guardo di fronte a me in classe e c’era Jim Schwall! Vado da uno dei ragazzi seduto di fianco e gli dico, penso che quello che sia Jim Schwall e lui mi fa, “ma chi diavolo sarebbe Jim Schwall?” Nessuno degli altri lo conosceva. Poi gli ho parlato anche perché…non avevo buoni voti. Jim correggeva in rosso le mie composizioni, quando andavo nel suo ufficio cominciava a spiegarmi che nella prima battuta avevo una quinta diminuita ma doveva esserci una ottava diminuita…mentre io gli chiedevo come era Howlin’ Wolf o se avesse mai suonato con Muddy Waters. Lui a quel punto cominciava a parlarmi di loro, del Pepper’s, il Sylvio’s e della scena di Chicago degli anni Sessanta. E poi tornava a parlarmi della mia composizione e di tutti i problemi che aveva. Non sono mai diventato un compositore e ho smesso di studiare musica classica, ma ho conosciuto Jim al di fuori della classe e ho anche suonato qualche volta con lui, poi di questi episodi ci ridevamo. Jim era un compositore raffinato e Corky aveva il progetto Chamber Blues, col quartetto d’archi, entrambi musicisti cerebrali e con vedute musicali ampie.

Come avete lavorato alla scrittura per il nuovo album?

Wilson: Per via della pandemia, restare a casa mi ha fatto pensare a molte cose. C’era davvero un hotel nel quartiere,  un albergo piccolo. C’era un bar al piano di sopra e un negozio di drogheria al pianterreno, qualcuno che cucinava…Era sempre pieno di gente che faceva festa, ci ho aggiunto il mio nome… e poi abbiamo collaborato per dare vita a queste storie.

Nosek: Sapevamo che ci sono questioni importante di cui trattare, ma sapevamo anche che dopo la pandemia e gli anni Trump qui in America, la gente è esausta, sfinita. Perciò abbiamo deciso, questa volta, di non concentrare le nostre energie su questioni politiche e sociali. Sentivamo che la gente aveva bisogno di sollievo, evasione, volevamo portare un po’ di allegria e felicità, fare musica che celebri questa cultura, in modo che la gente si lasci alle spalle i problemi. E “Oscar’s Motel” è la canzone perfetta all’inizio del disco, è un invito a rilassarsi e divertirsi.

Wilson: Anche alcune delle canzoni politiche che abbiamo scritto in passato raccontavano cose accadute. Come “Bluesman Next Door” e “Jon Burge Blues” su un poliziotto corrotto.

Come è nata la canzone con Deitra Farr, “I Can’t Stand You”? Ti sei divertito a cantare con una donna, come con Shemekia Copeland nel disco precedente?

Wilson: Quella è un’altra canzone venuta fuori durante la pandemia, tra me e Deitra. Alla fine è diventata una soap opera e la gente si divertiva ad ascoltarci litigare! Davvero non ci sopportiamo? I can’t stand you, I can’t stand you either…L’abbiamo scritta io, Deitra e Joe la canzone.

Nosek: Non riuscivamo a smettere di ridere, è stato molto divertente! Mi sarebbe piaciuto registrarli, è stato un pezzo facile da scrivere, lo abbiamo fatto tramite Zoom durante la pandemia.


Cash Box Kings (foto Janet Mami Takayama)

Cash Box Kings (foto Janet Mami Takayama)


E per la collaborazione con John Nemeth?

Nosek: Credo che Oscar e John siano andati fuori una sera a Memphis a bere qualcosa e si siano detti, “hey dovremmo proprio cantare una canzone insieme”. Così mi è venuta un’idea, stavo lavorando ad una canzone, “I Want What Chaz Has” e pensavo sarebbe stata perfetta per John e Oscar. La canzone parla di un altro nostro amico, Chaz, un tipo forte. John è stato grande, ha inciso la sua parte il giorno prima di partire per Houston per l’intervento. Avrebbe potuto essere l’ultima canzone che incideva, non poteva saperlo. Ha inciso il disco con Kid Andersen e Elvin Bishop e al suo ritorno a Memphis ha registrato questa canzone prima di ripartire. John è un grande cantante e una bella persona, siamo felici che stia meglio ora, è un miracolo.

Sarete in tour per supportare il disco?

Nosek: Abbiamo alcune date nel midewest e in Canada. Speriamo di suonare di più in Europa il prossimo anno, in Italia non siamo ancora mai venuti.

Wilson: Sono un grande fan dei Soprano!

Nosek; Oscar vuole provare il cibo italiano che vede nei film di mafia qui.

Wilson: Beh in realtà nel mio quartiere ai tempi c’erano culture differenti, polacchi, irlandesi, ebrei, neri ma anche italiani…da bambini andavamo da una casa all’altra e mi ricordo la signora italiana che cucinava la salsa, le polpette…e poi mangiavamo. Ed è come per il soul food, quello migliore lo mangi dalla mamma di qualcuno, come si faceva una volta. Mia mamma cucinava così dal nulla, oggi invece è tutto veloce e in scatola.

Un po’ come la vostra musica, blues come si usava fare una volta.

Nosek: Esattamente!

Siete passati per autoproduzione e per etichette quali Blue Bella, Blind Pig e ora Alligator. Che significato ha per voi?

Wilson: Un onore essere con Alligator, è la label n. 1 ed è fantastico, ti da la possibilità di avere un pubblico più vasto, più gente può sapere chi sei.

Nosek: Alcuni dei miei dischi preferiti sono Alligator, Hound Dog Taylor o Big Walter Horton. Da piccolo non avrei mai creduto possibile essere con loro. Quando la Blind Pig è stata venduta alla Sony Jerry (Del Giudice ndt) mi ha detto che voleva aiutarci a trovare una nuova casa, perché credeva nella nostra musica. Ha contattato Bruce, “lui è sempre stato un mio competitor” ha detto, “ma abbiamo una rivalità amichevole”. Ci ha presentati e Bruce ed io abbiamo parlato a lungo prima di trovare un accordo. Sono stato molto onesto con lui, non pensavo fosse interessato a noi, perché non siamo sempre in tour. Ho tre bambini piccoli e un lavoro, non posso essere in tour trecento giorni l’anno. Kenny ha figli piccoli anche lui. Ma Bruce crede nella nostra musica, specialmente per il fatto che è tradizionale ma con una nostra impronta che guarda al giorno d’oggi per via dei temi che affrontiamo. Bruce è uno dei più grandi fa del Chicago blues old school, è come uno storico. Ma è anche molto attivo dal punto di vista politico e sociale. Una delle canzoni che lo ha attratto è “Built That Wall”, una canzone anti Trump che ho scritto. Alcuni ci hanno detto che non è una buona cosa metter di mezzo la politica, ma a lui non importava, “rispetto questo gruppo e le canzoni che scrivono”, ha detto. Lui e l’etichetta sono stati di grande aiuto e supporto per noi, come ha detto Oscar, siamo fortunati ad essere con loro.

Sentite una responsabilità nel portare avanti, pur a vostro modo, la tradizione?

Wilson: Dobbiamo tener vivi i blues, per me è molto importante. Qualche volta con Billy Branch vado nelle scuole per Blues in The Schools, spero che uno due di quei ragazzini lo sentiranno. Come quando canto. Non mi aspetto che tutto il locale lo avverta, mi basta che una o due persone sentono quello che mi viene dal cuore e dalla bocca. Una volta ero ad un concerto ad un ristorante, era domenica pomeriggio. Mi viene un pensiero e dico agli altri, suoniamo un blues in la minore, cantavo della mia donna che mi aveva lasciato l’altro giorno, chissà se mi sarebbe tornata con me se l’avessi chiamata al telefono. E c’era questo altro tizio seduto lì, visibilmente scosso, ad un certo punto una ragazza venne a darmi un biglietto da cento dollari, la sua ragazza lo aveva lasciato quel giorno. La canzone lo aveva toccato. Vedi non era venuto per il blues ma il blues ce l’aveva dentro quel giorno. Questo è quello che cerco di proiettare sul pubblico. Ma non riesco a cantare una canzone allo stesso modo oggi come ieri, perché oggi mi sento in un modo ieri in un altro. La stessa canzone  può renderti felice, ma può anche renderti triste. Anche nella mia famiglia era così con “Come On In This House”. Voglio dire, al venerdi sera il mio patrigno veniva a casa dal lavorava come muratore, mentre si preparava ad uscire suonava  questa canzone. Ma altre volte poteva scoppiare una lite e c’era la stessa canzone. Io, mia sorella e mio fratello non lo capivamo allora, ma ora si. Quando riascolto quella canzone torno a quando avevo sei anni, ricordi belli e meno belli. Ma questo è il blues.

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