Il tour europeo della Tedeschi Trucks li ha portati a suonare, anche in Italia, nella dimensione prediletta, quella dei teatri, ragione in più per rendere imperdibile la data del 17 aprile al Teatro degli Arcimboldi di Milano. Un pubblico trasversale per età e provenienza e ancor più numeroso rispetto al loro passaggio due anni addietro all’Alcatraz, ha assistito rapito ad un concerto formidabile e trascinante, di un collettivo semplicemente senza eguali nel panorama odierno.E’ stata una cavalcata in crescendo che ha avuto molti apici e ha messo in evidenza, lungo tutta la serata, il talento di un gruppo che sembra davvero respirare all’unisono.

Sono partiti da “Signs, High Times”, dall’ultimo disco uscito da appena due mesi, proseguito con “Do I Look Worried?” e già la sala si scalda assieme alla voce di Susan. “Part Of Me” è un in pratica un duetto tra la Tedeschi e Alecia Chakour, molto brava ed espressiva a sua volta. Di nuovo un episodio estratto dal nuovo lavoro, “When Will I Begin”, dalla costruzione particolare, con cambio di tempo efficace. Ancora non abbiamo citato Derek Trucks, ma solo perché siamo ormai a corto di superlativi per descriverne le capacità prodigiose, la naturalezza propria di pochissimi eletti, abbinata ad un suono che è solo suo, fusione di elementi personalissima (blues, jazz, musica indiana) e gestione delle dinamiche tanto perfetta da far invidia a tanti direttori d’orchestra che hanno calcato lo stesso palco del teatro. Tornando alla cronaca, spazio poi all’ottimo Mike Mattison, il suo canto soulful si prende il centro della scena per “Right On Time” e la dylaniana “Down In The Flood”, che già eseguiva ai tempi della Derek Trucks Band (era su “Already Free”), in una versione carica e condita da un solo d’antologia di Derek. Va elogiata anche la sezione fiati, impeccabile nel dare colore ai brani e negli occasionali spazi solisti, come la tromba di Ephraim Owens sulla seguente “I’m Gonna Be There”. Molto bella “Bound For Glory” il cui sviluppo coinvolge ancora i tre coristi, con Mike e Alecia ad inseguirsi nel finale prima che la chitarra e la sezione ritmica, forte anche di due batterie, portino il pezzo alla conclusione.

Ma è la seguente “Midnight In Harlem” che da sola varrebbe il prezzo del biglietto, dall’intro solitario di Derek, da brividi, l’entrata del sax e l’avvio di questa ballata (scritta da Mattison), di adamantina bellezza, una delle gemme del loro repertorio. Canto e assolo finale, neanche a dirlo, d’impressionante e fluida emotività. Bravo anche il tastierista Gabe Dixon, peraltro autore di diversi dischi a suo nome, col gravoso e non facile compito di sostituire lo scomparso Kofi Burbridge, Dixon canta anche un brano, “Don’t Keep Me Wondering” di allmaniana memoria. Poi tocca a Mattison e il collega Mark Rivers prendersi giustamente la scena per “More & More”, un rhythm and blues che Little Milton incise per la Checker nel 1967. In questa straordinaria band un ruolo di primo piano ce l’ha Susan Tedeschi, non in quanto moglie di Derek, ma perché, grazie anche alla vicinanza professionale, è cresciuta in modo esponenziale, laddove il canto sa essere sempre perfettamente idoneo ed espressivo a tutte le volute stilistiche dell’ampio combo dalle fattezze sudiste. Ecco allora che Susan, accompagnata solo da un batterista, basso e tastiera fornisce una convincente interpretazione di “Angel From Montgomery” (John Prine) che fa onore alla collega cui la canzone è più strettamente associata, Bonnie Raitt e nel finale incorpora anche “Sugaree” dei Dead.

Tornano tutti per una versione da applausi di “I Pity The Fool”, in cui la Tedeschi si produce in un bell’assolo e i fiati giocano ancora un ruolo decisivo. “I Want More” spinge ancora sull’acceleratore e il groove avvolge tutto quanto, con un passaggio guidato dal nuovo bassista, il giovane Brandon Boone, già del tutto integrato nel gruppo. Ma non è finita qui, applauditissimi, tornano per due bis uno più bello dell’altro.  “Walk On Guilded Splinters” (Dr. John) vive sul tappeto sonoro incessante e sincopato delle due batterie, le voci e i fiati. E poi una epica, dilatata versione di “Space Captain” (Joe Cocker, Leon Russel e lo storico live  Mad Dogs & Englishmen sono un riferimento per Derek), con cui la festa giunge a  conclusione, Susan tira la voce e si lascia andare, “dobbiamo imparare a vivere insieme” canta, e la loro musica ce lo ricorda nel modo migliore. Bellissimo il dialogo tra Elizabeth Lea al trombone e Derek alla chitarra, con crescendo estatico. Che serata! Tra le migliori degli ultimi anni, e con quasi nessuna ripetizione col concerto del 2017, segno di vitalità e rinnovamento costante. Un gruppo entusiasmante che occupa un posto davvero a sé stante, ed è destinato ad offrirci grande musica per gli anni a venire.

 

                                                                                                       

Matteo Bossi e Silvano Brambilla

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