Il nuovo libro di Ted Gioia si intitola "Musica. Una storia sovversiva”

In qualche modo era ineluttabile che “Musica. Una storia sovversiva” di Ted Gioia (Shake Edizioni) finisse proprio nelle paludi del blues. Questo non tanto perché Ted Gioia ha dedicato (tra gli altri) uno splendido libro al “Delta Blues” o alla “Storia del jazz”, ma perché considera la musica alla stregua di una magia, e non c’è niente di più magico del blues. I motivi sono ancora più approfonditi e risalgono all’essenza della musica in sé che il filosofo Allan Bloom considerava “il medium dell’anima umana nella sua condizione più estatica di meraviglia e terrore”.

La definizione nella sua estensione accademica è stata estrapolata da Ted Gioia in un linguaggio più accessibile e polemico che è poi l’idea centrale della sua visione: “La musica è una forza potente, possiede molto più impeto di quello che le accreditiamo, specialmente in un’era che considera le canzoni un ozioso intrattenimento o, cosa ancor più banale e malaccorta, una sorta di stimolo cerebrale”.

È così fin dall’alba dei tempi, molto prima dell’apparizione del blues, quando i canti ancestrali e gutturali, servivano a procurarsi il cibo, nel momento in cui gli esseri umani dovevano accontentarsi di raccogliere le spoglie di altri predatori, più efficaci, più feroci. L’evoluzione nel corso del tempo non si è discostata più del tanto da quella condizione primordiale e Ted Gioia, analizzando e puntualizzando secoli di “una storia sovversiva” ricorda che “i racconti popolari di tante culture celebrano questa pratica: un eroe attraversa l’oltretomba o qualche altro luogo periglioso, e vince le forze oscure grazie a una canzone magica”.

Scopriamo “Musica, una storia sovversiva”

Con il formarsi di nuclei sociali via via più complessi, la musica si è fatta sia “agente del cambiamento” che “catalizzatore” delle trasformazioni e Ted Gioia segue e racconta le influenze arabe e africane, il ruolo dei mecenati e le condizioni e le vessazioni subite dai musicisti, Wagner e Verdi, i rapporti con le istituzioni. Sono pagine molto dense che si avvicinano per gradi alle evoluzioni più radicali del ventesimo secolo, cominciando a indagare con scrupolo l’essenza generale della musica folk che, come sostiene Ted Gioia, “nega le gerarchie, si oppone alle istituzioni elitarie e dà voce ai gruppi emarginati che non troverebbero mai posto a Bayreuth o alla Scala”.

Questo implica la consapevolezza storica che “molto prima di essere raggiunti dal resto della società, i musicisti hanno già affermato la legittimità della cultura profana, il livellamento delle gerarchie sociali, l’idolatria dell’artista, i meccanismi di un sistema di mercato e del mecenatismo e, cosa più importante di tutte, la fiduciosa affermazione della libertà creativa dell’individuo a fronte delle richieste istituzionali”.

È  un affermazione che diventa una potente chiave di lettura rispetto all’apocalittica ferocia della schiavitù, un tema che ritorna con regolare frequenza nell’analisi di Ted Gioia. Il canto, il tamburo, la danza hanno avuto un ruolo definitivo e “a ogni passo della storia della schiavitù nera in America il potere della musica affiorava nonostante tutte le remore, le regole, gli ostacoli o le punizioni. I discendenti degli schiavi africani avrebbero alla fine dominato la cultura musicale ovunque si fossero stabiliti: già molto prima della fine dello schiavismo i musicisti neri scalzavano gli artisti bianchi.

Persino nelle comunità più razziste il pubblico arrivò poco per volta a preferire la stessa popolazione che opprimeva, in veste di erogatrice di intrattenimento musicale”. La radice estrema del blues, anche per l’assonanza linguistica, va cercata in quello che Alexander Falconbridge, medico di bordo di quattro traversate, chiamava “il malinconico lamento dell’esilio”, ma, come ricorda Ted Gioia, “oggi sappiamo con il senno di poi che sarebbe stata la popolazione nera delle Americhe, quasi tutti discendenti di schiavi, a reinventare la musica popolare del ventesimo secolo.

E in tanti modi: intanto con ragtime e blues, poi con il primo jazz e lo gae, samba, boogie-woogie, doo-wop, bebop, calypso, funk, salsa, hip-hop”. Il blues comprende le parole delle canzoni di Ma Rainey, Son House e Robert Johnson che costituivano un elemento di disturbo della quiete pubblica.

Il blues secondo Ted Gioia

Il blues è scomodo e non addomesticabile, e questo  è giusto ricordarlo e ribadirlo, ma come ribadisce Ted Gioia: “La musica è sempre stata collegata al sesso e alla violenza. I primi strumenti grondavano sangue. Le prime canzoni promuovevano la fertilità, la caccia, la guerra e simili. Quasi tutta la storia della musica serve a oscurare questi rapporti ed eliminare gli elementi giudicati vergognosi o indegni dei posteri”. Tra gli elementi “vergognosi” della musica sono compresi anche “gli espliciti riferimenti sessuali, le esaltazioni della violenza, le allusioni agli stati mentali alterati (che siano prodotti da ubriachezza o da visioni di tipo sciamanico”, magia, superstizione e altre materie indecorose. Il blues poneva una minaccia particolare perché incarnava tutte queste cose”.

Il nuovo libro di Ted Gioia, Musica. Una storia sovversiva uscito per Shake Edizioni

È vero, ma Ted Gioia tiene a precisare che “questi brani costituivano una minaccia per la pubblica morale, ma anche gli ingredienti musicali, le note del blues, erano oltraggiosi. E per il semplice fatto che si rifiutavano di essere note. Dopo più di due millenni di paradigma pitagorico, il blues dichiarava che la musica non doveva più rimanere succube della matematica. Infatti, la sua tecnica era uno scandalo a fronte di tutto ciò che era stato fatto per codificare e schematizzare la musica occidentale”. Non la forma standard, con la notazione musicale come la conosciamo sul pentagramma.

Qualcosa che ha una forma mutante e fluttuante tutta sua o, per dirla con Ted Gioia, che non ha nemmeno una forma, ed ecco perché “nelle loro primissime manifestazioni, le canzoni blues erano un vero e proprio affronto al cuore stesso e all’anima della musica occidentale”. La rivolta è, in primo luogo, estetica perché “la stessa rottura delle regole si allargò a strutture più ampie della forma musicale.

Nonostante quello che insegnano di solito sul blues in dodici battute, i primi specialisti non seguirono questo schema. In tanti casi non seguivano alcuno schema prefissato: certe volte un chorus blues poteva durate undici battute o tredici, o inserire battute parziali, randagie, che non aderivano ad alcuna organizzazione metrica. Aspetto ancora più oltraggioso, la stessa canzone, se ripetuta dallo stesso artista, poteva imboccare direzioni diverse la volta successiva. Le stesse armonie blues che definivano l’idioma, i proverbiali tre accordi del pezzo blues, erano parimenti restie alla codificazione”.

Detto questo, nel corso della storia della musica “le cose diventano il proprio opposto” ed è il motivo per cui Robert Johnson, che qui trova tutto il suo spazio, è la figura emblematica, non l’unica, ma quella che nell’insieme raggruppa tutte le vitali contraddizioni del blues, dal ventesimo secolo in avanti. Secondo Ted Gioia, “Robert Johnson ha contribuito in non piccola parte al processo di legittimazione” del blues e, in particolare, “è stato un protagonista della riconciliazione degli elementi africani intrinseci del blues con il paradigma matematico, pitagorico della cultura musicale dominante in Occidente.

Codificò le tecniche che padroneggiava e frenò gli elementi più ribelli del blues, imponendo allo spinoso idioma del Delta una cristallina sensibilità armonica e un vocabolario nettamente delineato, figure, accordi di passaggio, pattern boogie, groove”. Per estensione, Robert Johnson “ha portato una chiarezza concettuale e una precisione esecutiva che hanno trasformato una pratica semi-folk in un nuovo genere di canzone colta occidentale”.

Ted Gioia puntualizza anche le similitudini e le distanze tra jazz e blues che “possono prendere spesso in prestito l’uno dall’altro”, ma “sono intrinsecamente diversi nella dinamica interna. Il jazz è una musica urbana scaturita dal trambusto della città più multiculturale d’Occidente. Il suo linguaggio prospera nel melting-pot perché guarda all’esterno ed è affamato di nuove fonti d’ispirazione. Al contrario, il blues è venuto alla luce nelle campagne più isolate, e il suo valore estetico ha più a che vedere con le tradizioni e i lasciti del passato. Puoi ancora sentire nel blues i griot africani, quei cantastorie della comunità che conservavano la tradizione culturale. Queste influenze riverberano anche nel jazz, ma con un’atmosfera più afrofuturista, una maggiore recettività alle possibilità di sintesi e metamorfosi”.

Poi, la nascita del rock’n’roll, che ha aperto una strada verso altri mondi, ha accelerato e amplificato le moltitudini e i conflitti e fa bene Ted Gioia a puntualizzare che “oggi diamo per scontato il trionfo dei poveri neri ai danni del business musicale globale, ma se ci pensiamo bene è stato la novità più sorprendente degli ultimi cinque secoli di musica”, perché non “c’è nulla di più notevole di una minoranza povera e spesso detestata che viene dalla parte sbagliata della città, che sia a New Orleans, nel Delta del Mississippi, a Detroit, nel South Bronx, a Compton”.

C’è spazio anche per l’ironia perché nonostante la complessità dei temi trattati, Ted Gioia mantiene (per quanto possibile) un linguaggio chiaro e comprensibile ai più, riservandosi anche qualche momento spiritoso, che non guasta. Come quando, per raccontare come “a un certo punto della storia umana, le armi di distruzione di massa sono diventate principalmente strumenti di divertimento di massa (e siamo solo al secondo capitolo) racconta la storia della chitarra sfasciata in testa a John Lee Hooker dalla compagna Maude Mathis e giustamente il bluesman “affermò di essere contento di essere salito sul palco con un’acustica a corpo cavo e non con una Les Paul solid-body”, una chitarra che ha un suo bel peso specifico.

L’aneddoto, uno dei tanti, è sempre a corollario dell’idea fondamentale di Musica. Una storia sovversiva ovvero che “le canzoni possiedono ancora la magia, anche per coloro che si sono dimenticati come usarla”. Indispensabile.

di Marco Denti

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