“Una rotonda sul mare, il nostro disco che suona… vedo gli amici ballare, ma tu non sei qui con me.” Caro Fred, dopo anni e anni di stressante ricerca sul motivo del vostro mancato incontro, abbiamo finalmente risolto la questione. E certo che non era li con te…era al Summer Jamboree, dove altrimenti!!!! Che poi, forse se fossi rimasto dall’una alle quattro di mattina alla Rotonda, forse l’avresti anche incontrata di nuovo. Diciannove le candeline in questa nuova entusiasmante edizione che come sempre raccoglie mille eventi fra concerti, dj set, lezioni di ballo, mostre, mercatini, burlesque e sfilate roboanti; quest’anno dall’1 al 12 agosto su quella che ormai potremmo definire la capitale italiana de rock n roll e non solo, Senigallia.

Foto di Simone Bargelli

Tutto come sempre all’insegna di quella cultura e mood che tributano mitico un ventennio tra i 40 e 50 rendendo iconico il sogno americano, oggi forse un po’ svanito. L’occasione è quella per far festa, ma per noi come per molti altri, anche il modo di apprezzare  artisti e musicisti che rendono viva ancor oggi una tradizione ricolma di ritmi e nozioni. Tante, tantissime le band che si sono alternate nei tre palchi principali dislocati attraverso il centro marchigiano che, per come è strutturato, sembra essere predestinato alla kermesse. Tre sono stati i giorni di pre-festival dove va inizialmente segnalata la performance del sempre eclettico e carismatico Mitch Woods. L’artista di Brooklyn ha sfornato il suo marchio indelebile fatto di jump, boogie, jive e blues; lui che tra le sue infinite collaborazioni ha incontrato i maestri John Lee e Pinetop Perkins, le armoniche di Charlie Musselwhite e James Cotton, la chitarra di Ronnie Earl tanto per citarne alcuni. Set come sempre ricco di energia, oltre che per l’audacia e il mestiere di Mitch, soprattutto per il supporto dei Good Fellas, house band del festival ormai immancabili quando si parla di Jamboree, che più di altre volte hanno contribuito alla qualità dello spettacolo attraverso un legame magicamente naturale con il frontman stesso.

Foto di Simone Bargelli

Cat Lee King and His Cocks sono una band tedesca, che ha piacevolmente sorpreso per uno stile già maturo considerando la giovane età dei membri. Tra jump blues, west coast sound, rhythm and blues e rock n roll i cinque ragazzoni di Bonn si sono esibiti in due giornate, esplodendo in tutta la loro competenza e rispetto verso i maestri; con un album all’attivo e giustamente tanto sudore sul palco, sono stati tra le belle sorprese di questa edizione, delineando quello che potrebbe essere un futuro roseo per la loro carriera. Piace ricordarli soprattutto per il loro repertorio originale come “Let Me Love You” e il talentuoso diciannovenne Thomas Croole alla chitarra. Domenica 5 agosto presso il Kraken Stage si sono “presentati” tre “giovanotti” che hanno fatto la storia italiana di determinati suoni; con il marchio Offbeat il trio composto da Marco Di Maggio, Blasco Mirabella, Max Zampini hanno riletto con padronanza e accortezza classici del rock n roll, del country e del rockabilly, da Gene Vincent a Buddy Holly passando per Johnny Cash. La bravura dei tre è tangibile e piace come, senza troppe leziosità, si divertano e facciano divertire; il loro è stato un set semplice e genuino, prerogativa dei grandi. Parlando di “The Man In Black” da li a qualche ora sul main stage del Foro annonario sarebbe salito un famoso personaggio della scena country texana.

Foto di Simone Bargelli

Dale Watson è arrivato con il suo immancabile ciuffo e il fascino di altri tempi ripercorrendo quella tipica tradizione del sud, ancora oggi seguitissima dal popolo americano. La sua è una voce bellissima in un canto tradizionalmente western ma che ogni tanto ci regala dei bellissimi passaggi bluesy come in “Blues Stay Away from Me”, accompagnato dalla Don Diego Trio (una garanzia), tra pattern honky tonk e malinconiche ballate. Il blues è sempre ben presente nell’approccio di Dale e atmosfere amarcord sono inevitabili quando sul palco sale Celine Lee giovane cantante e compagna di Watson per un duetto alla Cash/Carter. La prorompente Celine, esclusiva europea per il SJ, si è esibita il giorno successivo in ben due set. Se conosciuta soprattutto per il suo orientamento country western, piace ascoltarla particolarmente nei brani più rhythm and blues e rock and roll, dove a nostro parere, riesce a esprimere il lato più vero della sua personalità.

Foto di Simone Bargelli

E la cosa appare strana, parchè le sue caratteristiche vocali non sono certo di chi possiede una tonalità potente e corposa. Certamente Celine non è un’artista che passa inosservata grazie anche ad un atteggiamento che tende a prendersi poco sul serio, ma mai farsi ingannare dalle apparenze parchè le potenzialità di questa ragazza non sono ancora completamente emerse. Sempre impeccabile la Don Diego Trio, band che l’ha accompagnata nuovamente. Ad ogni modo un altro piacevole spettacolo al Kraken Stage.

Nel cartellone di quest’anno è stato dato persino spazio al gospel con gli statunitensi Golden Voices Of Gospel indice che la direzione artistica ha una forte personalità e una sana voglia di non “chiudersi” a facili cliché; onestamente però è stato uno dei momenti meno interessanti di questa edizione, non perché la proposta fosse apparentemente distante dalla natura del SJ, ma perché l’ensemble esibitosi non è sembrato all’altezza dei più apprezzati progetti di genere. In un evento così grande non si può, ad ogni modo, attendere che sia sempre tutto perfetto.

Foto di Simone Bargelli

Lunedì 6 agosto è stata forse una delle giornate più intense della kermesse con l’esibizione dei Bamboozle prima e dei The Revolutionaries poi, band entrambe britanniche. I Bamboozle sono un classico trio rockabilly con una forte propensione al blues. Capitanati dall’esplosiva Serena Seykes, voce e contrabbasso, possono trasformarsi in quartetto con l’apporto del piano di Dave Kirk, ma non per questo SJ. Ciò che maggiormente apprezziamo è la pulizia di un suono grintoso, ma mai invasivo e anzitutto la capacità di riarrangiare in modo personale classici provenienti dalla tradizione afro-americana, “Caldonia” su tutte ma anche brani più “giovani” come “Johnny Got a Boom Boom” di Imelda May.

Foto di Simone Bargelli

Alternando boogie dai toni blues, rock and roll dai groove ipnotici e strumentali dai colori surf è l’innato swing della stessa Serena che apporta quel qualcosa in più ad un set brillante e divertente. Dopo uno show così convincente, mai ci saremmo immaginati che da li a qualche minuto avremmo assistito a uno dei concerti più entusiasmanti di questo SJ e probabilmente dell’intera nostra stagione festivaliera del 2018.

Sullo stage del foro salgono gli inglesi The Revolutionaires per una vera e propria rivoluzione in piena regola. In verità i frequentatori più assidui del festival già avevano avuto prova della loro salutare follia in un Jamboree di qualche anno fa. Il quartetto capitanato dai fratelli Stephenson si incentra sulla figura di Ed, chitarrista, voce, armonica e piano ma inevitabilmente “animale da palco” che con esperienza e naturalezza salta, corre si dimena fra ritmi incessanti e pattern scatenati. Base del loro suono è il boogie; quel boogie graffiato (gli americani direbbero rough) croce e delizia di tante icone del blues passato. C’è però anche l’influenza di Roy Brown e Louis Jordan nel loro potente dna e tra classici più o meno noti e bacchettate di rockin sound, rock and roll e rhythm and blues, il livello dello show è in constante ascesa adrenalinica. Dato che siamo in tema, potremmo paragonarlo al tachimetro di una hot-rod che, partito da 100 km/h, non fa altro che salire costantemente. Piacciono anche quando decidono di proporre una tiratissima “The House is Rockin’” di Stevie Ray Vaughan e rispolverano un vecchio brano portato al successo da Mike Pedicin intitolato “Burnt Toast and Black Coffee”. La carica è impareggiabile e poco importa se a volte (rare in verità) si facciano prendere la mano spingendo al limite; quando si corre ad alte velocità, anche questo fa parte del gioco, un gioco che comunque ci piace tantissimo!!!! Pazzamente rivoluzionari!!! eravamo talmente attenti alla loro performance che non ci siamo accorti se si sono esibiti in qualcosa di loro; questo forse potrebbe essere indicato come il leggendario pelo nell’uovo.

Foto di Simone Bargelli

In un festival che continua tra mercati vintage, passerelle di macchine d’epoca e lezioni di ballo i nostrani The Lucky Lucianos sono una “fresca” ventata di storie passate che potrebbe apparire come uno strano eufemismo ma in realtà non lo è. Esibitisi nello Smeg stage di Piazza Garibaldi il loro show è, non solo una performance filologicamente inappuntabile, ma anche come una breve e piacevole lezione di storia musicale grazie ai racconti e aneddoti di Stelio Lucky Lacchini, vera e propria enciclopedia viaggiante….ah dimenticavo anche musicista con i fiocchi, in questo caso papillon. Tra brani di Jimmy Cavallo, Freddie Bell e soprattutto melodie italiane a volte dimenticate, il loro è stato un set schietto che può anche essere letto come stimolo ad approfondire (e il messaggio va soprattutto ai più giovani!) certi mondi musicali troppo spesso messi da parte. Tra le band più attese, soprattutto da chi segue costantemente questa scena, c’erano gli statunitensi The Starjays da Seattle, gruppo incentrato sulle forti personalità di Roy Kay e Angela Tini, bellissima voce di chiare origini italiane.

Foto di Simone Bargelli

Show marcatamente improntato su una base rhythm and blues e anche se le loro influenze inevitabilmente provengono dalla scena black, quella di Etta, Ruth e Irma, nella proposta originale fatta, emerge un tratto tipicamente “bianco”. Lo spettacolo è godibilissimo, il canto di Angela eccellente, la presenza di Roy indispensabile, ma la responsabilità della sua ottima riuscita va indicata nel lavoro nascosto, ma quasi perfetto, di Fabrais Boom Boom La Motta alla batteria che, insieme a Benny Marco Pretolani (provenienti dai good Fellas), hanno dato un supporto fondamentale alla serata e al set. Sono molti i brani composti da Kay che andrebbero menzionati; “Turn Down the Light”, “I’ll Wait”, “Keep On Talkin’” ma certamente il pubblico li ricorderà per un’inaspettata “Tintarella Di Luna”.

Foto di Simone Bargelli

Se la serata è trascorsa ottimamente, non da meno è stato il pomeriggio con l’esibizione degli Australiani The Rechords (forse avrebbero meritato un pubblico più ampio e soprattutto maggiormente attento) perché il trio si è dimostrato una eccellente sorpresa e ha anche professionalmente sopperito all’improvviso incidente avvenuto al contrabbassista Tyron Shaw (rottura della mano) prontamente sostituito dall’ottimo Zimmy Martini da Bologna. La performance si concentra su tradizionali spunti hillbilly e rockabilly con creative soluzioni armoniche e melodiche della chitarra elettrica di Felix Potier ma è la loro energia “australiana”, difficile da parafrasare, che li rende unici in un contesto dove la staticità appartiene a troppi. Il tempo vola purtroppo, soprattutto quando ci si diverte e raggiunte le ultime due giornate di festival, imperdibile è il tradizionale show del weekend quando la favolosa Abbey Town Orchestra accompagna le varie voci che hanno composto il cartellone di quest’anno in una specie di Rock n Roll Revue.

Foto di Simone Bargelli

Tra le tante che si sono alternate attraverso classici dello swing, rhythm and blues e dintorni, Laura B resta una delle nostre preferite grazie ad un appeal d’altri tempi e un carisma ricco di brio, ma è l’italiana Meg che presenta una delle performance più riuscite della lunga serata, sfoggiando una voce e uno stile inappuntabile. C’è stata anche una giovane voce che si è messa in evidenza e che insieme alla sua band chiuderà il festival; Virginia Brown and The Shameless dalla solare Sicilia, sono stati un’altra bella irruzione ne Summer Jamboree di quest’anno. Il palco centrale si è incendiato attraverso un rhythm and blues classico, alternato da ritmi rock n roll ma anche tanto New Orleans sound, permettendo al bravissimo Alfonso Vella al sax (punto di riferimento del gruppo) di esprimersi ad alti livelli. In questa breve cronistoria del SJ2018 ci dimentichiamo certamente di qualcosa e ce ne scusiamo, ma l’evento è enorme (più di 30000 presenze giornaliere); l’appuntamento con i tatuaggi, i balli fino a mattina alla Rotonda (ricordalo Fred!), il Dance Camp, le mostre, L’Hawaiian Party sul lungomare, il Burlesque e altro ancora; oltre a questo i numerosi artisti che non abbiamo menzionato come Ray Collins, Graham Fenton, Greg and The Rockin Revenge, i mascherati Margraves, The Satellites, Rudy Valentino e tanti altri;

Foto di Simone Bargelli

ma soprattutto la qualità che l’organizzazione, sempre più responsabilizzata, riesce a proporre e garantire ed infine la città e la sua amministrazione che lavorano in maniera affiatata per uno scopo comune (cosa rara ma da farne tesoro)  perché quando si viaggia nella stessa direzione i risultati poi sono questi. Come sempre c’è stato anche tanto “blues occulto” nelle performance viste anche perché, non ce ne vogliano i puristi, ma che cos’è il rock n roll se non un blues a 78 giri!!! Concludiamo dicendo che per chi non è mai stato al Summer Jamborre l’appuntamento è rimandato al prossimo anno con un particolare invito e suggerimento….se non siete avvezzi a questa cultura e sopratutto al suo vestiario, non vi arrovellate in composizioni che rasentano il carnevale; potete tranquillamente venire “in borghese”, vi fanno entrare senza problemi…l’ingresso è gratuito!

 

Simone Bargelli

Category
Tags

Comments are closed

Per la tua grafica

Il Blues Magazine
GOSPEL & SPIRITUALS 2024