Troppo lungo sarebbe fare anche solo una sintesi della lunghissima carriera musicale di Sugar Blue, 68 anni e sulle scene da 50. e la lista delle sue collaborazioni con i grandi del blues e del rock riempirebbe da sola tutta una recensione. Di lui non possiamo però omettere un ricordo personale: quello di quando una fredda notte dell’inverno 1987-1988 mi infilai in un cinema mezzo vuoto di Torino per vedere il film Angel Heart di Alan Parker, una specie di noir soprannaturale che magari nel calduccio di casa non mi avrebbe fatto nessun effetto ma che in quella situazione, da solo in inverno in una città non mia, lasciò un po’ il segno.

Foto di Carlo Gerelli

E di sicuro fra le cose che lasciarono il segno c’era la presenza di questa blues band un po’ “satanica” che si esibiva in un malfamatissimo bar di New Orleans, con alcuni fra i grandi dell’epoca, Brownie McGhee e Pinetop Perkins fra gli altri, e un armonicista tosto, che piazzava una bellissima “Rainy Day” a metà del film. L’armonicista tosto, l’avrete già capito era Jimmie Whiting, aka Sugar Blue, che nel 1987 aveva già dato da una decina d’anni la zampata che lo avrebbe lanciato nel mondo come un nome noto, contribuendo col suono del suo strumento a un paio di album dei Rolling Stones, in particolare col riff ipnotico di “Miss You” inclusa in “Some Girls”. E dopo altri 30 anni di vagabondaggio musicale, che appunto lo ha portato a mescolarsi un po’ con tutti gli ambienti, era proprio lui, lo stesso armonicista con l’immancabile coppoletta, che ci siamo visti comparire davanti il 6 aprile di quest’anno al Druso di Bergamo, accompagnato da una band di tutto rispetto e fronteggiato purtroppo da un pubblico non tanto folto quanto il nome avrebbe dovuto richiamare.

Foto di Carlo Gerelli

Le doti tecniche di Sugar Blue, diciamolo subito, sono favolose, si tratta oseremmo dire dell’armonicista blues con la miglior tecnica in circolazione al mondo: pur con tutto questo, nonostante una serie di riconoscimenti che ha riscosso nell’arco della sua lunga carriera, fra tutti il Grammy per il miglior album blues del 1985, ma anche più di recente la storia di copertina di Living Blues, l’impressione è che fatichi a trovare una modalità espressiva che lo caratterizzi quel tanto che basta per dargli una sua dimensione comunicativa. Lo show è comunque godibilissimo, di bell’impatto, oltre che per l’assoluta maestria del leader anche per il forte contributo del prestigioso e navigatissimo chitarrista Rico Mc Farland. Il validissimo tastierista comasco Damiano della Torre, la solida bassista Ilaria Lantieri (moglie da qualche di Sugar Blue e mamma del loro bimbo che sgambettava sotto al palco) e il bravo batterista C.J.Tucker completavano la formazione. Un piccolo passo indietro per dire che la serata era stata aperta dal trio italiano della Nick Fassi Band, con Max Pierini a basso e voce e Manuel Togni alla batteria oltre al bravo Nick alla lead guitar, un set breve ma di bell’impatto, con alcune belle cover fra le quali una riuscita versione di “I don’t need no doctor” di John Mayer. Subito dopo la band di Sugar Blue è salita sul palco per un set durato poco più di un’ora e consistente in una serie di classici fra i quali ricordiamo una bella Help me, e una notevole Hoochie Coochie Man, oltre che altri prestiti da Little Walter e Junior Wells oltre che ovviamente, piazzata verso la fine del concerto, la proverbiale Miss You.

Foto di Carlo Gerelli

Molto apprezzabile anche il siparietto acustico in cui Sugar Blue ha condiviso il palco, durante la temporanea esclusione del resto della band, con il fingerpicker italiano Max De Bernardi. L’armonica di Sugar Blue (va detto e ridetto) lascia letteralmente a bocca aperta quanto a potenza del suono, precisione dell’esecuzione, e inventiva tecnica se non proprio musicale in senso lato. Di tutte le armoniche blues che abbiamo mai ascoltato si piazza assolutamente al primo posto per tutte queste doti, anche se resta l’impressione, come si accennava in precedenza, che manchi qualcosa nella compattezza e nell’incisività e originalità della proposta musicale della band. Tutto ciò nonostante l’assoluto valore dei singoli musicisti, di cui abbiamo già detto, il che fa pensare che forse quel qualcosa manchi proprio nel leader, quel pizzico in più di originalità e di idee che faccia decollare la sua straordinaria padronanza tecnica verso un tipo di espressione ancora più compatta e più incisiva, magari proprio facendo leva sulle qualità della band che l’accompagna.

 

Carlo Gerelli

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