Non vi è dubbio che Sue Foley, canadese ma texana d’adozione, si sia confermata tra le più credibili blues women della sua generazione. Dai suoi esordi su Antone’s a inizio anni Novanta, ne ha percorsa di strada e in tempi più recenti ha inanellato una serie di dischi che potremmo definire della maturità, pubblicati dalla Stony Plain, quali “The Ice Queen” e “Pinky’s Blues” o il “Live In Austin Vol. 1” uscito lo scorso anno, a testimonianza di una musicista completa, con piena conoscenza della tradizione e la capacità di farla propria senza artifici. Adepta della Telecaster, Foley possiede un tocco che ha acquistato una incisività e un tono particolare, diretto e molto riconoscibile.
Qui però siamo al cospetto di un altro lato della sua personalità, un disco acustico, realizzato in completa solitudine, sempre con la produzione di Mike Flanigin, apprezzato organista (Jimmie Vaughan e molti altri). “One Guitar Woman“, Sue lo ha registrato con una chitarra di fabbricazione messicana dalle corde di nylon ed è un omaggio dichiarato a chitarriste del passato che hanno aperto la via per lei e molte altre colleghe. Si inquadra nell’ambito di un progetto più ampio al quale Sue Foley ha lavorato da vent’anni a questa parte, dedicato appunto alle “Guitar Women”. L’artista canadese ha raccolto molto materiale, intervistato musiciste, curato compilation (“Blues Guitar Women”, uscita nel 2005 su Ruf…) e, probabilmente, tutto questo culminerà in un libro.
Foley non è la sola ad aver scavato nel passato in questi anni, riscoprendo un repertorio ricchissimo e figure antesignane, pensiamo a progetti di artiste come Rhiannon Giddens o Gaye Adegbalola oppure, in Italia, a Veronica Sbergia ed Elli De Mon, stante le differenze di modalità espressive anche molto distanti tra loro. La scelta di Sue è incentrata sul binomio voce/chitarra e in questo la sua visione si allarga fino a comprendere, oltre all’amato blues, pioniere in ambito classico, country e flamenco. Se dunque non stupisce ascoltarla interpretare due brani di Elizabeth Cotten, molto bella “Baby It Ain’t No Lie” o di Memphis Minnie, “In My Girlish Days” e “Ain’t Nothing In Rambling”. Di quest’ultima ha regolarmente ripreso pezzi del suo repertorio, “Me & My Chauffeur” compare sia sul suo disco d’esordio che sul recente album dal vivo. Si tratta, beninteso, di ottime versioni sia per l’afflato chitarristico che vocale, ben restituite da una incisione caratterizzata da profondità e pulizia.
O altrettanti da Geeshie Wiley ed Elvie Thomas (si veda al riguardo l’articolo su Il Blues n. 135) tra cui non manca “Last Kind Words Blues”, divenuta un classico che conta tante interpretazioni, ancora la Giddens e persino quella del duo Plant/Krauss. Maggior sorpresa desterà di sicuro la versione di “Romance In A Minor” di Niccolò Paganini, omaggio alla virtuosa chitarrista classica francese Ida Presti, scomparsa nel 1967, poco più che quarantenne. Oppure “La Malaguena” con dedica a Charo, una delle prima chitarriste che vide all’opera, “la ragione per cui suono la chitarra spagnola”, scrive Foley, dimostrandosi del tutto a suo agio con un tocco di flamenco. È riuscito anche l’omaggio autografo “Maybelle’s Guitar” che, come anche “Lonesome Homesick Blues”, fa riferimento alla matriarca della Carter Family, innovatrice dal punto di vista tecnico oltre che nume tutelare di tutto un filone culturale e musicale. Molto valida anche l’esecuzione di “Mal Hombre”, forse il brano più noto associato alla grande artista tejana Lydia Mendoza. Foley realizza un disco rigoroso e molto godibile, evitando il rischio dell’esercizio di stile, come abbia voluto rivolgere un ringraziamento sentito a chi “ha tracciato la mappa e ha fornito le indicazioni per seguirla”.
Matteo Bossi
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