Abbiamo avuto modo di parlare con Selwyn Birchwood poche settimane prima della pubblicazione di “Exorcist”, suo quarto album per Alligator. “Sono cresciuto ascoltando un sacco di artisti Alligator” ci dice lui, “Ed è un onore e una cosa surreale vedere il logo Alligator in fondo ad un mio disco. Finora è stato un matrimonio molto felice, loro hanno la stessa passione nel diffondere la mia musica di quanta ne ho io nel crearla.” Birchwood, oltre a essere persona pensante e ironica, si conferma in crescita come artista, cercando di seguire, con totale dedizione, una sua rotta personale.
La scorsa volta (Il Blues n. 154) avevi detto di aver già pronte sei o sette nuove canzoni per un album. Eccolo qua.
Sì, è proprio questo. Per me è un punto d’orgoglio l’aspetto della scrittura, penso che sia qualcosa che è andata persa nel mondo del blues di oggi. Mi sembra che le persone siano talvolta dedite a registrare o riregistrare e suonare vecchie canzoni. Alcune delle quali hanno oltre cent’anni. E mi sembra che talvolta la gente tenda a mantenere la musica in una sorta di capsula temporale, un pezzo da museo. Ma non è questo che mi ha attratto nella musica. Ciò che mi ha attratto era quanto fosse personale, emozionale, lo storytelling. Un punto di connessione e una preghiera per chiunque stesse suonando e per questo ha una tale carica emotiva, perché è vero. Ad un certo punto essere sul palco a suonare la musica e le parole di qualcun altro e raccontare le storie di altre persone, la cosa inizia a sembrare esile. Ed è una sensazione che non mi piace. Ho visto abbastanza gente stare su un palco a cantare “I was born in Chicago in 1952…”. Ma questa è solo la mia opinione. Con questo disco e il precedente sono convinto che abbiamo trovato il nostro suono e penso che faresti davvero fatica a trovare un’altra band che suoni proprio come noi. Sembra che siamo sempre l’incognita, il jolly ed è qualcosa che mi piace, sono qui fuori cercando di raccontare la mia storia, col mio suono. E pare esserci una sorta di divisione, metà del pubblico lo apprezza e l’altra metà pensa che dovremmo suonare come questo o quell’altro. Ma la scrittura dei testi e della musica era la ragione per cui chiamavamo artisti quei performer, perché erano creativi. In teoria dovresti dipingere, non fare una traccia unendo i puntini.
Siete andati in studio e avete semplicemente registrato le nuove canzoni?
Beh no, ho scritto tutte le canzoni prima di andare in studio. Idealmente faccio in modo che la band suoni le canzoni dal vivo per circa un anno prima di essere in grado di andare in studio. Finisce sempre per assumere una forma diversa dal momento in cui inizi a provarle a quando le suoni dopo oltre un anno. Come una lenta cottura, in cui le spezie insaporiscono il tutto e alla fine il gusto è semplicemente migliore.
Un paio di canzoni le hai incise con un gruppo differente, (Jim McKaba, Jon Buck, Josh Miller, Andrew Gohman).
Sono solo miei amici…Volevo già farlo sullo scorso album, chiamare cioè alcuni amici che hanno studiato a fondo lo stile “old school”. Sono venuti in studio per vedere come suonavamo insieme. E sono rimasto contento del suono che abbiamo trovato, tutti si sono trovati al posto giusto, abbiamo premuto il tasto “record” e spero che potremo fare un intero disco così. Questo è stato solo un primo assaggio, abbiamo testato le acque. Ma non riesco a lasciar stare le cose, devo comunque metterci qualcosa di mio.
Ho visto alcuni filmati in cui suoni da solo in acustico.
Anche questo è un di cui. Devi sapere da dove vieni per sapere dove stai andando. Mi piace studiare i vecchi blues, non semplicemente per imitarli ma per imparare da essi e cercare di utilizzare queste conoscenze per raccontare la mia storia e scoprire il mio suono. Quello è l’obiettivo. E mi sembra anche il modo in cui la vedevano gli artisti del passato. Tutti coloro che in teoria dovresti imitare, Muddy Waters, B.B. King, Freddie King, Albert King, Albert Collins, Son Seals…tutti avevano un suono distintivo, perché cercavano il suono che avevano in testa. Oggi tutti sono bloccati allo stadio imitativo, che è il primo passo. Dopo l’imitazione ci dovrebbe essere la creazione. Ed è li che vorrei arrivare, al punto di essere creativo e fare musica espressiva. Questo mi interessa della musica. Altrimenti dopo un po’ ascoltare qualcuno suonare canzoni di altri ha lo stesso effetto del karaoke.
Il tuo amico e mentore Sonny Rhodes è scomparso nel dicembre 2021. Sei riuscito a vederlo prima che se ne andasse? Registrerai una sua canzone come tributo?
L’ho visto poco prima della pandemia. Mi ha fatto una sorpresa ad un mio concerto a San Francisco, California, venne a salutarmi nel back stage. Purtroppo lui viveva in California ed io in Florida. Ma parlavo di lui spesso, in quasi tutti i miei show, tutte le volte che prendo in mano la lap steel. Per quanto riguarda le registrazioni, preferisco incidere canzoni che ho scritto, questo è il mio sesto disco tutto di musica originale. E sembra stia funzionando, la gente ai miei concerti non urla “Mustang Sally” o “suona Stevie Ray Vaughan o Eric Clapton”…piuttosto canzoni che ho scritto. Ed è una bella sensazione non soltanto essere accettato ma esserlo a braccia aperte.
Scrivi spesso di te stesso in canzoni come “Underdog” e “My Own Worst Enemy” e lo fai con una bella dose di autoironia.
Questo è proprio il tipo di musica che preferisco. Mi piace quando un artista condivide una parte di sè, si rende vulnerabile e in questo modo si connette ad un livello più profondo, umano. E diventa più di meri accordi e parole, cominciando ad essere come una medicina. Non sono una persona particolarmente estroversa ma per qualche ragione riesco a salire su un palco e a condividere me stesso senza filtri, in questo modo. Credo che questo aiuti a stabilire una connessione con l’altro più che andare sui social media dove chiunque finge di essere una celebrità. Puoi fingere se vuoi, ma io preferisco la realtà, nessuno ha una vita perfetta, tutti abbiamo a che fare con il buono, il cattivo, il brutto e il bello…non capisco perché ci si ostini a far finta che non sia così.
Come autore è un qualcosa che ti è venuta naturalmente o ci hai dovuto lavorare su?
È sempre un work in progress. Cerco di diventare un songwriter migliore ad ogni disco e con ogni canzone. Ed è una cosa su cui devi lavorare. Scrivere è come imparare uno strumento, se non usi quel muscolo beh non migliorerai. Anche qui credo che la gente tenda a seguire la strada più facile, come dirsi, “oh ora suono questa canzone e il pubblico andrà in visibilio”…ma sono del parere che questo non richieda molto sforzo, mi sembra di barare se suono soltanto un po’ di cover. Non ci vuole molto a farti apprezzare una canzone che già ti piace. Il difficile è stare lì a scrivere la tua musica e mettere il pubblico dalla tua parte con essa.
L’ultima volta che abbiamo parlato, notavamo scherzando che hai cambiato batterista ad ogni disco. Ed è così anche questa volta.
Si, è vero (ride). Ma devi trovare la giusta personalità e talvolta la gente prende la cosa nel modo sbagliato. Essere un musicista in tour richiede una condizione di vita molto particolare e una personalità che si adatti a tutte le caselle. Poi uno può essere il miglior musicista possibile sullo strumento ma magari non ha un passaporto o non può viaggiare per qualche altra ragione, magari ha venti figlia a casa…Non è facile trovare persone in gradi di farlo. È uno stile di vita non semplice e suonare sul palco rappresenta solo il 3% del lavoro, devi saper fare anche il restante 97%.
Come sta Regi Oliver? Sappiamo che ha affrontato un’operazione al cervello.
Sta bene ed è di nuovo con noi in tour come se nulla fosse successo. La reazione dei fan per aiutarlo è stata impressionante. Regi è con me da sedici anni, il mio bassista Huff da circa dodici, mentre il batterista e il tastierista da circa un anno e mezzo.
Avete ripreso i tour a pieno regime dopo lo stop dovuto alla pandemia?
Si, siamo stati in California per tre settimane, poi a casa per quattro giorni e di nuovo on the road per altre quattro settimane nel midwest e nel nord est. Sono tornato la notte scorsa dal Beale Street Festival a Memphis e sono circa quindici ore di strada. Ma non potrei essere più contento, essere così presi vuol dire che stanno succedendo cose buone. Abbiamo appena pubblicato il video di “Florida Man”, la prima canzone del nuovo album.
L’ho ascoltata, le parole mi hanno ricordato i romanzi di Carl Hiaasen, scrittore a sua volta della Florida, per l’ironia nel descrivere storie di ordinaria follia.
Non lo conosco, lo cercherò…ma è vero abbiamo parecchia follia da queste parti! Durante la pandemia ho cercato di imparare come registrare e montare i video, tanto che quasi tutti i video e il materiale promozionale l’ho realizzato io. Anche i video di “Living In A Burning House”, “Revelation”, “Searchin’ For My Tribe”… ora questo nuovo. Sto anche lavorando su quello della canzone titolo, “Exorcist”. Sono cresciuto guardando i video su MTV e cose di quel tipo mi sono sempre piaciute, mi mancavano. Coi video si aggiunge un aspetto visivo tridimensionale alle canzoni.
In alcune cazoni, come “Lazarus”, hai per la prima volta dei coristi, danno un’atmosfera gospel al brano.
Sono stato fortunato a trovare alcuni cantanti davvero bravi. Volevo già farlo nei dischi precedenti ma non ero riuscito a trovare le persone giuste. Cerco di scrivere musica che piacerebbe sentire a me quando vado ad un festival o prendo un album e quello che mi attrae è la parte emotiva della musica, lo storytelling, come è costruita la canzone, l’idea che sta dietro…non mi piace ascoltare canzoni dove sento che non c’è molto dietro, sono solo parole, cerco qualcosa di un po’ più cerebrale. Per questo ogni canzone che scrivo deve avere qualche significato, non ha suolo un valore nominale, c’è probabilmente una metafora o qualcos’altro all’interno. Tutto quel che posso chiedere è che quelli del pubblico che lo apprezzano, lo apprezzino per davvero…
Nel disco precedente avevi Diunna Greenleaf al canto in un brano, ci sono altri artisti con i quali vorresti collaborare?
C’era Diunna perché avevo quella canzone e lei era la sola persona che mi sia venuta in mente e lei lo ha fatto proprio come avevo pensato. Se succede succede, non ho in mente nessuno, ma deve essere adatto alla canzone. Questa è un’altra cosa che penso spesso sia più un trucco che davvero incentrata sulla musica. Voglio dire c’è chi fa dischi con dieci altri ospiti, solo per mettere quanti più nomi possibili sull’album. Sono disposto a farlo soltanto se quella persona è la migliore per la canzone. La mia idea è di essere diverso, è il solo modo che conosco.
Matteo Bossi
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