Prakash Slim - 8000 miles To The Crossroads - Il Blues Magazine

Per uno come me che ama la montagna, pur non essendo un alpinista esperto, trovare un disco come questo è stato un (piccolo) shock. Conoscevo il Nepal solo dai racconti di Caterina, mia moglie, che anni fa, ben prima che ci conoscessimo, intraprese un viaggio di trekking in altura (oltre i 5000 m) che la portò, a quanto racconta, in un’altra dimensione. Lo stesso effetto mi fa da anni visitare una piccola valle alpina, la Valsavarenche, legata all’amore per la natura di mio padre e di mia madre, in cui per qualche anno riuscimmo anche ad organizzare un piccolo festival musicale, che unisse musica di qualità e natura incontaminata. Ma le parole di Michael Freeman che introducono la figura di Prakash hanno il sapore delle leggende. Scoprire che musicisti come Charley Patton, Robert Johnson, Bukka White, Fred McDowell, Mississippi John Hurt e Blind Blake tra gli altri, siano riusciti ad influenzare un “ragazzo” proveniente da così lontano è stato davvero sorprendente. Nel nostro piccolo Clarksdale ci ha lasciato qualcosa di familiare nel 2003, la prima volta che ci mettemmo piede, pur non essendo musiciti. Questo non è il primo lavoro di Prakash Slim, seguen “Country Blues From Nepal”, ma ha dalla sua la forza di raccontare si una storia, ma soprattutto un viaggio, quello che lo ha portato appunto al Crossroad in occasione del Juke Joint Festival, inciso con lo stesso Michael Freeman alla batteria e Johnny Burgin alla chitarra. C’è qualcosa di magico nel viaggio, qualunque sia la distanza percorsa, che ne fa risplendere il racconto in maniera particolare rispetto a qualunque altro, forse per l’intrinseca metafora del viaggio della vita, racchiusa in un lasso di tempo più breve. E Prakash ci/si racconta, aprendo il suo cuore in “Talkin Nepal Blues”, appunto un talking blues che racconta di tutte le vicende che lo hanno comunque portato ad ascoltare e suonare blues, e a ritrovare quel qualcosa che stava cercando in una musica proveniente dall’altra parte del mondo. Tra strumentali come “Blues Raga (Part Two)” e ispirazione ai classici come “Everyday Blues Is In My Heart”, Prakash riesce ad insinuarsi nelle nostre orecchie anche per la pronuncia chiaramente diversa e l’accento di sapore orientale, che diventano una caratteristica peculiare piuttosto che un difetto. Dal Fred McDowell di “Kokomo Blues”, particolarmente ispirata, e “Write Me A Few Lines”, passando da Charlie Patton con “Hammer Blues”, fino a “Woking Man Blues”, geograficamente indefinita, perché il mondo è lo stesso a qualunque latitudine e longitudine, come pure ascoltando “Homeless Child”, non sembra di essere distanti dal Mississippi. A giudicare dalla copertina quei posti nascondono del mistero che sarebbe meraviglioso poter sperimentare ed esplorare, per cui aspettiamo con ansia il primo Nepal Blues Festival, forse un sogno o una utopia direte voi, ma anche un disco come questo credo non ve lo sareste mai aspettati o sbaglio?

 

 

Davide Grandi

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