Musica? Feeling? Tecnica? Arte? Commercio? Magia? Tutte queste cose e anche una sonora dose di fortuna accompagnano da sempre il Porretta Soul Festival, giunto alla ventinovesima replica. Inizialmente preso un po’ bonariamente sottogamba, persino malignato da chi voleva far credere che la soul music “autentica” fosse qualcosa per attempati nostalgici, continua ad attrarre spettatori e artisti che non erano neanche nati al suo esordio. Figurarsi ai tempi d’oro del rhythm & blues sudista, che la rassegna appenninica omaggia, celebra e rilancia verso il resto del mondo. Ormai conta quattro date consecutive, serratissime e ufficiali, tutte con ingresso a pagamento; le star internazionali sono concentrate da venerdì a domenica.
E che razza di concentrazione: venerdì non è ancora buio quando parte il gruppo di apertura, nientemeno che Fred Wesley & the New JBs; la macchina da ritmo del trombonista e arrangiatore di James Brown e George Clinton fa deflagrare classici come “Gonna Have A Funky Good Time”, “House Party Tonight” e “Soul Power”. A seguire gli impeccabili californiani della Bey Paule Band: riconfermato a pieno titolo dopo due annate superlative, il supergruppo sarà al servizio di tutti i cantanti e concluderà la trasferta europea accompagnandoli in mezzo all’Atlantico al festival Maspalomas delle Canarie, dal 2015 gemellato con Porretta.
Tutti solisti di specchiata esperienza e affiatamento, tra loro citeremo almeno la versatile chitarra e direzione di Anthony Paule, il sax tenore dell’esile ma portentosa Nancy Wright e la batteria acrobatica di Derrick “D’Mar” Martin.
Per tre sere successive sfileranno fino all’una passata cantanti di più generazioni e orientamenti, con le calde presentazioni del bravissimo Rick Hutton e la scansione dei tempi di un improvvisato ma funzionale stage manager che chiamano “Mister cinque minuti”. Il solista co-titolare della band, Frank Bey, si conferma ideale collegamento tra il nume tutelare della manifestazione, Otis Redding, gli umori bluesy di Bobby Bland e Johnnie Taylor e le utopie del John Lennon di “Imagine”.
Le esibizioni della giovane e incandescente pantera Falisa JaNaye’, mississippiana verace, e degli assi del chitlin circuit tra Chicago e Memphis Stan Mosley, Theo Huff e Jerry Jones, confermano la dottrina di Graziano Uliani, fondatore, direttore artistico e insindacabile selezionatore: restituire prestigio, credibilità, repertorio e un contorno di musicisti reali a talenti dell’America nera sovente sottoutilizzati a casa loro e confinati ad accompagnamenti sintetici e scalette da karaoke.
Da Memphis ritorna al Rufus Thomas Park anche la beniamina Toni Green, che può ben dire di giocare in casa. È alla sua sesta apparizione a Porretta (come Rufus stesso!), perciò le si perdona una preparazione sbrigativa e una performance quasi incolore, appena riscattata dal duetto di “If Lovin You Was Wrong” con Theo Huff. Chi invece non ha nulla da farsi rimproverare è il colossale John Ellison, già leader dei Soul Brothers Six e autore di un brano cooptato tra le colonne del rock, “Some Kind of Wonderful”. Giunto in palandrana a macchie di ghepardo modello blaxploitation, si metterà a nudo in una micidiale combinazione di angoscia e passione. Evocherà Bo Diddley, Sly Stone e Jackie Wilson in un catalogo che va da “Shout” alla desolata impotenza di “What Can You Do When You Ain’t Got Nobody?”.
Solitamente ritenuto un purista, paladino della vecchia scuola del deep soul, il buongustaio Uliani si è sempre tenuto alla larga dalle derivazioni moderniste o nu-soul, e considera la disco music come un’infausta involuzione.
Ma non deve stupire l’invito di un pioniere dello stile, quel George McCrae che proprio con “Rock Your Baby”, una detonazione da undici milioni di copie vendute, diede il via libera alla controversa stagione della disco. Interprete gentile e genuino tuttora capace di un falsetto volteggiante, l’artista della Florida si integra alla perfezione nello spirito del festival, a cui regala, oltre alla danzante “Sexy Woman”, perla del recentissimo cd dall’ovvio titolo “Love”, coerenti versioni di “It’s All Right” e di “You Are So Beautiful”.
L’uomo-manifesto dell’edizione 2016 è Bobby Rush, un personaggio che fa categoria a sé. Si candida al primo Grammy (dopo tre nomination) di una carriera iniziata quando “i musicisti di colore dovevano suonare dietro una tenda, per non turbare il pubblico bianco”, racconta tra il tragico e lo strafottente all’attentissimo pubblico della domenica mattina a cui propone in anteprima “Porcupine Meat”. La prima parte dell’incontro è dedicata al battesimo dei Soul Books della Vololibero Edizioni, in presenza degli autori Gabriele Antonucci e Lucia Settequattrini; poi tocca all’ultimo nato dell’ottuagenario blues-folk-funk-man in una discografia che, tiene a precisare lui stesso, conta trecentoventinove titoli. Sta per uscire per la Rounder, prodotto dal geniale Scott Billington, anch’egli per l’occasione ritornato a Porretta in pompa magna.
Vi mettono mano parecchi luminari, tra cui l’arrangiatore, chitarrista e interprete Vasti Jackson, a sua volta titolare di eccellenti set durante i concerti di sabato e domenica.
Da quanto si è ascoltato, l’album, registrato a New Orleans, cattura alla perfezione l’arte del campione della Louisiana, fatta di un imprevedibile, scombussolante tradizionalismo. La stessa arte ha preso il ostaggio il Rufus Thomas Park grazie a squarci di armonica, dialoghi con l’orchestra e i solisti, parti a cappella, incisi autoreferenziali, movenze allusive e politicamente scorrette, in alleanza con la mimica sexy della simpatica ballerina Mizz Lowe. Mestiere, esperienza e chilometraggio illimitato aiutano ma non bastano a fare la differenza. Sì, il repertorio di Rush è pieno di citazioni, da Muddy Waters a Eddie Boyd al Philly Sound, ma non occorre andare a rintracciare padri, padrini, figli e figliastri: la musica è totalmente sua, e non può che condividerla con le moltitudini. La manifestazione si è conclusa con tutti gli artisti sul palco per un brano corale che ne ha catalizzato lo spirito, non la classica “Sweet Soul Music” ma stavolta “The Blues Is Alright”. Un piccolo segno dei tempi.
Edoardo Fassio
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