Fonti accreditate da oltre Manica, non contente di averlo già definito “la più longeva – e di certo la migliore – rassegna al mondo di questo tipo”, ora arrivano a certificare che il Porretta Soul Festival è il “più bel festival a cui si possa assistere, di qualsiasi genere”. Forse l’enfasi non è fuori luogo, se si considera che visitatori da ogni angolo d’Italia e d’Europa continuano ad affluire e ad applaudire la manifestazione emiliana che ha concluso la sua ventottesima edizione dopo aver schierato, in quattro serate zeppe di pubblico e di sorprese, una decina di solisti di prim’ordine e quattro estese orchestre di rhythm & blues, compresa una che arrivava da un arcipelago dell’Atlantico e un’altra dal Giappone, e perfino la Fanfara del Terzo Reggimento Carabinieri “Lombardia”.
Quest’ultima si è confrontata con onore con i classici del soul e del funk e si è meritata il cammeo del batterista Bernard “Pretty” Purdie, uno che in una carriera leggendaria ha suonato con chiunque, dai Beatles a James Brown, da Aretha Franklin a Dizzy Gillespie. Senza dire della dozzina di promettenti formazioni nazionali che si sono avvicendate in piazza della Libertà, al centro della cittadina, attorniate da un ben strutturato “Soul & Streetfood Village” con banchetti di cibarie e specialità regionali.Le formazioni. Intanto i formidabili Osaka Monaurail; gli strumentisti e il cantante Ryo Nakata, diventati senza sforzo tra i beniamini del festival, sono stati protagonisti in alta uniforme, insieme con la fanfara dei Carabinieri, sorprendentemente elastica, della serata di apertura di giovedì, per la prima volta a pagamento e graditissima allo stesso modo da ospiti e da porrettani. La scaletta è stata completata dai bolognesi Groove City, convocati in extremis a rimpiazzare gli annunciati concittadini Amnesy International (i quali proporranno il loro set domenica sera) con voci ospiti come Rick Hutton (non presenta soltanto, lui il soul lo sa anche cantare), Theo Huff e Wee Willie Walker.
Poi l’abruzzese Luca Giordano Band che, arricchita dal competente e versatile Sax Gordon, ha fatto scintillare la performance di Sugaray Rayford. Il robusto performer angeleno, fisico e facilità di linguaggio da predicatore gospel (o da rapper di strada), si conferma fedele incarnazione del presente e del futuro prossimo del soul-blues di impronta tradizionale. E ancora la Sugar Hill Band, vanto delle isole Canarie e apprezzata per una scaletta eclettica che comprendeva “Compared To What” e “Seven Nation Army”.
Ma soprattutto la All-Star Band del chitarrista e leader Anthony Paule, che si è incaricata del resto del lavoro, ossia di direzione, arrangiamenti e accompagnamenti non solo per il co-titolare Frank Bey, artisticamente ringiovanito dopo i tre gloriosi, recentissimi cd e ormai campione con pochi rivali, ma pure per quasi tutti gli altri cantanti. Un impegno preparato con mesi di anticipo e premiato da un assortimento di esibizioni di alta classe.
Eccone i beneficiari, non necessariamente in ordine di apparizione: nomi di culto come il Derek Martin di “Daddy Rollin’ Stone”, sbucato fuori dai meandri degli anni Sessanta e ora di base in Francia e assai richiesto sulla scena Northern Soul, o l’elusivo Joe Arnold, il mitico sassofonista e componente dei Memphis Horns che incise con Sam & Dave e Albert King e partecipò ai tour europei di Otis Redding, o ancora il gigantesco, gigionesco Prince Phillip Mitchell, compositore di punta per uomini e donne legati a Muscle Shoals, da Candi Staton a Joe Simon a Millie Jackson, e interprete di rara eleganza di classici come “Starting All Over Again”, o infine Wee Willie Walker, che registrò per la Goldwax una manciata di ballad in vena deep soul, desolata e commovente, un po’ alla maniera di James Carr, a lungo atteso e finalmente sbarcato a Porretta dalla sua attuale dimora di St. Paul, nel Minnesota.
Poi ci sono i graditi ritorni da passate edizioni, come l’espansivo georgiano David Hudson, o il fiero Theo Huff, eclettico esponente della scuola di Chicago, e la sua bravissima concittadina Chick Rodgers, il cui primo piano campeggiava dai manifesti e la cui arte si è confermata in spettacolari, per quanto talora ingombranti, interpretazioni dei classici di Aretha. E infine la sublime, ineffabile Sugar Pie DeSanto, designata erede di Rufus Thomas nel cuore degli appassionati della sagra appenninica del rhythm and blues. Ora che va per gli ottanta ci si è accorti che c’era poco da crederle quando, nella sua terza visita al festival, quattro anni fa, annunciò che era prossima a cessare l’attività. Elastica e mordace, la voce impertinente arrochita dalla nicotina, Sugar è rimasta una entertainer completa: canta, salta, balla e scherza con platea e strumentisti.
Ripensa con affetto alla sua infanzia a Philadelphia, tra un papà filippino e una mamma che le impartiva lezioni di musica classica. Anche quei quartieri relativamente benestanti erano permeati da pregiudizi razziali, non dissimili da quelli del Deep South; forse, ricorda con realismo, fu questo il motivo ad avvicinarla alla passione per il blues e la soul music, immortalata in classici come “Soulful Dress” e “In The Basement”, lo storico duetto con Etta James, un’altra mezzosangue dal talento portentoso.
Da tempo non solo gli spettatori (che, tanto per citare una delle serate, in cambio dei 30 euro del biglietto sabato sera hanno assistito a ben sei ore filate di musica) ma anche gli artisti fanno la coda per venire a Porretta.
Graziano Uliani, fondatore, direttore artistico e deus ex machina del festival, tra le mille incombenze si riserva il diritto insindacabile di selezionarli di persona.
Di solito si affida al fiuto e all’esperienza, quasi mai a valutazioni mercantili. Ma proprio l’indiscussa qualità degli interpreti convocati, unita al clima di familiarità, gioiosa ma tranquilla e informale, che pervade Porretta Terme nei giorni della Sweet Soul Music, gli ha assicurato nei decenni un conclamato successo che ha coinvolto musicisti, pubblico, critica, cittadinanza e partner commerciali e istituzionali.
Edoardo Fassio
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