La location di Porretta rimane sempre unica, e, anche per chi non riesca a fermarsi per tutta la durata dell’ormai famoso festival Soul, accogliente e calda come deve essere la musica dell’anima. Ci è spiaciuto vedere le vecchie terme praticamente abbandonate, quando il piccolo paese brulicava di gente che avrebbero potuto/voluto invaderle amichevolmente, e ci è spiaciuto ancora di più l’annuncio fatto sul palco da Rick Hutton durante la seconda serata della scomparsa di James Govan, a lungo icona, dopo il più noto Rufus Thomas, di questo fortunato evento musicale. Nonostante questo, e non sappiamo se grazie alla magia o ad un patto con il diavolo, la quattro giorni musicale è stata esente da precipitazioni in una estate che al contrario ha tormentato tutta la scena musicale italiana e non solo.
In qualsiasi rassegna al mondo la Anthony Paule Band sarebbe top of the bill, il piatto forte della lista. Invece a Porretta, nelle serate di sabato e domenica, alla formazione guidata da uno dei più brillanti e soulful chitarristi in circolazione è spettata la posizione di antipasto. Per non dire di comprimari del calibro di Tom Poole, trombettista di Etta James, e della versatile sassofonista Nancy Wright, o di un cantante come Frank Bey, che darebbe filo da torcere a Otis Redding o a Bobby Bland. Già noti al di fuori del loro habitat – la Bay Area di San Francisco, anche se Bey, georgiano di nascita, è ufficialmente domiciliato a Philadelphia – grazie un paio di eccellenti dischi autoprodotti, Anthony, Frank e soci si permettono il lusso di virare alla soul music persino la “Imagine” di John Lennon, con risultati più che degni dell’originale, visto che intelligentemente hanno evitato la competizione. Accompagnano l’operazione, trionfalmente riuscita, con una distribuzione al pubblico di cuori gialli di cartoncino con la scritta “pace”, da sventolare durante il set. Una volta si usavano gli accendini, anche se ora purtroppo in molti concerti si usano e fin troppo i cellulari..
Non è stato un errore organizzativo o di calcolo aver fatto suonare per primi questi campioni assoluti, piuttosto la dimostrazione del livello stratosferico che il Porretta Soul Festival continua a mantenere a ventisette anni dall’esordio.
Dopo il prologo di Giovedì sera, gratuito e aperto a tutti, quasi ad imitare il famoso concerto di homecoming che B.B. King regala tutti gli anni ai suoi concittadini di Indianola, le strade di Porretta si sono riempite come solitamente accade per questa kermesse, di giovani band che seguono la via musicale che fa da guida al festival, seppure sotto un sole cocente e su palchi scoperti (onore alla loro resistenza!), e tra le varie apparizioni abbiamo incrociato anche il fuori programma di Alice Violato & The Twisters.
Il venerdì, dopo l’apertura dei Capital Strokes, band romana dalle tinte funky guidata da Randy Roberts, era entrata in scena la Muscle Shoals All Star Band, per la quale l’aggettivo “leggendaria” non è fuori luogo. Dei componenti originali usciti dagli studi FAME in Alabama – che si misero per loro conto fondando i concorrenti e “scissionisti” Muscle Shoals Sound Studios – rimangono gli Swampers Jimmy Johnson, David Hood e Mickey Buckins, ma la band ha saputo integrare alla perfezione strumentisti più giovani. È il caso del chitarrista Will McFarlane, solista in innumerevoli produzioni Malaco, o dell’innesto più recente, Kevin McKendree, tastierista per Delbert McClinton, Don Was e tutti i migliori. Nominati house-band di ordinanza, e agli onori della cronaca grazie alla tempistica uscita del film che li celebra – in italiano sottotitolato “Dove nascono le leggende”, per l’appunto! – hanno accompagnato tutte le attrazioni.
Sia vagando tra le stradine del paesino termale che contemplando adoranti nei pressi del palco le eccezionali esibizioni musicali di quest’anno, abbiamo avuto la fortuna di incontrare una vasta ed eterogenea “fauna”, da eminenti giornalisti a semplici appassionati giunti persino da altri paesi europei, e che solo qui riescono a trovare, giustamente aggiungiamo noi, un festival interamente dedicato a questa particolare angolazione della musica afroamericana che tanto li appassiona.
Nelle tre serate – la domenica è stata, secondo il solito, un utilissimo compendio, con gli stessi partecipanti delle due precedenti – sono sfilati personaggi di culto come Jimmy Hall, frontman dei sudisti Wet Willie e soul man bianco sulle linee di Van Morrison o Eddie Hinton, omaggiato in un album inciso proprio a Muscle Shoals. O protagonisti poco noti, tra karaoke e chitlin circuit, come l’elegantissimo Theo Huff, un clone chicagoano di Johnnie Taylor. Alla sua concittadina Chick Rodgers, per la terza volta a Porretta, è toccata come da copione la parte di Aretha Franklin, mentre la coppia memphisiana Jerry Jones – Chilly Bill Rankin ha replicato routine e repertorio di Sam and Dave. Una splendida sorpresa è stata Vaneese Thomas, figlia minore del compianto padrone di casa della manifestazione (che si svolge nel centrale Rufus Thomas Park). La Thomas può affrontare il repertorio di altre – ancora Aretha, che era un’amica di famiglia, o la Candi Staton di “I’d Rather Be An Old Man’s Sweetheart” – ma è una stella di prima grandezza per proprio conto, come dimostra con “10 x The Man You Are” e altre selezioni autografe dall’ultimo cd. Vaneese si fa ambasciatrice di una petizione per includere “Rufulone” (sì, lo chiama proprio così!) nella Rock & Roll Hall of Fame, il che fa sorgere dei dubbi sull’autorevolezza di certe istituzioni: ma Rufus non doveva appartenervi di diritto fin dalla fondazione?
Anche oltreoceano quindi, e non solo nel nostro belpaese, capita che sia di moda l’adagio latino nemo profeta in patria, anche se la constatazione di questa abitudine non ci consola.
Di Denise LaSalle gli appassionati sapevano tutto, tranne l’età. Si riteneva che la regina del soul blues fosse nata nel 1939, in realtà ha confessato ufficialmente di essere ottantenne, cinque anni più anziana. Volitiva, licenziosa e ricca di umorismo proto-femminista, ha deliziato il popolo del soul con un florilegio di hit per il mercato nero, quasi tutti composti da lei. Baraonda finale per “Don’t Mess With My Tu-Tu”, un brano zydeco che fece furore negli anni Ottanta. “Ma Rockin’ Sydney” – dice, alludendo all’autore – “non intendeva la stessa cosa che dico io”! Di una generazione più giovane e con un canzoniere simile, sebbene più teatrale, Toni Green è madrina in pectore della rassegna, e la sua versione di classici del rimorso, della gelosia e dell’infedeltà come “I’d Rather Go Blind” e “If Loving You Was Wrong” seduce anche gli spettatori più distratti. Scritturata per acclamazione a cartellone ormai definito, Toni ha avuto l’onore di comparire sui manifesti ufficiali: uno scatto dell’anno scorso che la vede implorante, inginocchiata, microfono in mano, quasi una Tina Turner dell’età di mezzo, ma rinnovata e irriconoscibile quest’anno a causa del cambio di colore dei capelli e del vestiario… Ah le donne!
Guitar Shorty, personaggio dal manico pesante che illo tempore è stato sposato con la sorella di Hendrix, ora che Jimi non può più confermare, dichiara addirittura di avergli suggerito i passaggi di “Hey Joe” e “Purple Haze”. Shorty appartiene alla categoria dei chitarristi che suonano con una mano sola, coi denti o col fondo schiena, non fanno durare un assolo meno di un quarto d’ora e lo eseguono andando in giro per la piazza facendosi fotografare in mezzo alla folla. Per non farsi mancare nulla, o forse a beneficio degli orfani di Woodstock e del Vietnam, ha concluso con un assordante bombardamento di distorsioni.
Nonostante lo si sia apprezzato un paio d’anni fa al Lucerna Blues Festival, ci è parso un po’ troppo sopra le righe, soprattutto allungando oltremodo un brano che viveva di vita sua senza bisogno di queste dimostrazioni di abilità. Confidiamo sul fatto che l’atmosfera piacevole e allegra di Porretta lo abbia spinto in questa direzione, anche se, esempio anche lui del fatto che le tinte soul si mescolano sempre più con il blues e non solo, ha decisamente virato la serata, non ce ne vogliano i fan, addirittura sul cammino del figlio “bianco” del blues, ovvero il rock.
Nato come rassegna per puristi, il festival appenninico della Sweet Soul Music ha saggiamente saputo venire a patti con il lato commerciale del business, anche se Graziano Uliani, mitico fondatore e direttore artistico, ha sempre a tenuto dritta la barra del timone. Musicisti, sponsor, media e istituzioni lo amano, o temono, a seconda dei casi. Lo segue uno zoccolo duro di seguaci adoranti che, anno dopo anno, si contano a migliaia, e non solo dall’Europa.
Edoardo Fassio e Davide Grandi
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