In dieci anni di concerti italiani, era mancato finora, strano a dirsi, un concerto milanese per Otis Taylor; lacuna colmata il 22 maggio con la sua presenza al Blue Note. In un club gremito Otis era accompagnato da Todd Edmunds, Larry Thompson e Shawn Starski ed ha iniziato, a sorpresa, con una improvvisazione al piano, «così posso dire di aver suonato il piano al Blue Note!» ha detto alla fine del brano. Poi passa alla chitarra per lanciarsi sul tema di “Ten Million Slaves” un caposaldo dei suoi live, emblematica delle coordinate entro cui si muoverà il concerto e che potranno sorprendere chi magari lo conosceva solo per i dischi.

Otis è maestro nella gestione delle dinamiche, imposta sovente i brani con introduzioni sussurrate cui seguono improvvise impennate (quasi) rock, assecondate da diversi passaggi della chitarra di Starski e dal gran lavoro di Larry Thompson, per poi riportare il brano in un alveo più controllato verso il finale.  Dal nuovo disco ha suonato “Blue Rain In Africa” e “The Wind Comes In” articolata su un bel tappeto ritmico e con  alcune pennellate di Starski. Dopo l’intro della sua “They Wore Blue” attacca “Hey Joe” e poi “Hambone” momento per coinvolgere il pubblico con l’armonica e il caratteristico diddley beat, con annessa una piccola pausa del leader, riempita da un assolo di Thompson. Sempre solida “Rain So Hard”, un altro dei pezzi che più lo identificano. E’ trascorsa circa un’ora e Otis già annuncia l’ultimo brano, «sarà lungo» tranquillizza lui, che prende il via dai riff di “Black Witch” e poi diventa “Lifetime Of Freedom” per sfociare in una lunga coda strumentale, con largo spazio ad ogni musicista. Applaudito, torna sul palco per una buonissima “Nasty Letter”, comparsa nei film Shooter e “Public Enemies“, intensa, e certo uno dei momenti migliori del concerto, ma prima di congedarsi c’è ancora tempo per la dolente “Hurry Home” per sola voce.

Matteo Bossi

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