Se ne è andato qualche giorno fa, il 18 settembre, un’altra figura che, seppur non sempre in prima fila, ha segnato un pezzo non trascurabile di storia della musica americana, Nick Gravenites.  Soprannominato “The Greek” era, come recita il titolo di una delle sue canzoni più celebri, “Born In Chicago”, nato nella Windy City da una famiglia di origine greca e come alcuni altri ragazzi della sua generazione fin da adolescente rimase folgorato dal blues frequentando regolarmente i locali cittadini. Da lì a mettersi a suonare in proprio il passo è breve, anche perché il talento a loro non mancava e in più avevano la possibilità di abbeverarsi alla fonte e di farsi le ossa suonando con i loro eroi. Pensiamo appunto che accanto a Gravenites, si muovevano più o meno in parallelo il suo amico Mike Bloomfield, Paul Butterfield, Barry Goldberg, Corky Siegel, Elvin Bishop o qualcuno venuto dal sud come Charlie Musselwhite.

Sono anni densi di musica, band, dischi, concerti, ci vorrebbe un articolo a sé soltanto per ripercorrere quel lustro che comprende il finire degli anni Sessanta. Cambia molto in poco tempo, anche la geografia, visto che molti degli artisti citati, Gravenites in primis, finiranno per trasferirsi nell’assolata California e dar vita a sperimentazioni sonore diverse. E il nostro si distingue in molte vesti,  cantante, strumentista, autore e produttore.  L’avventura con l’Electric Flag non è duratura ma produce almeno un album di culto, “A Long Time Coming”. Ma lo è divenuto altrettanto uno dei pochi lavori solisti di Gravenites, il bellissimo “My Labors”, pubblicato nel 1969 e frutto in parte di concerti al Fillmore West, ancora con la partecipazione, neanche a dirlo, di uno straordinario Bloomfield.

Si potrebbe proseguire rievocando il ruolo di produttore coi Quicksilver Messenger Service, Otis Rush (“Mourning In The Morning” e “Right Place, Wrong Time”), la collaborazione con Big Brother And The Holding Company, Janis Joplin non fece in tempo invece a incidere il cantato della sua “Buried Alive In The Blues”. Ma sarebbe ingiusto trascurare le tante collaborazioni negli anni Settanta con l’amico Bloomfield (“Live At Old Waldorf” o “Analine”) per esempio, quelle con John Cipollina negli Ottanta e le più recenti esibizioni con altri reduci di quella incredibile stagione, spesso sotto il nome Chicago Blues Reunion. Avevamo assistito cinque anni addietro al festival di Lucerna ad un loro bel concerto, dove un Gravenites ancora in forma, aveva cantato con vigore, divertendosi lui per primo a far rivivere il passato, insieme, tra gli altri, a Barry Goldberg e Gary Mallaber.

Aveva fatto in tempo a pubblicare un ultimo album, “Rogue Blues”, uscito nella primavera di quest’anno per l’etichetta M.C. di Mark Carpentieri in cui è affiancato da altri amici quali Pete Sears, Charlie Musselwhite, Jimmy Vivino o Lester Chambers. Una forma di commiato piena di rispetto e dignità per la musica e i blues in particolare che ha amato per tutta la vita. Ascoltarlo e magari a ritroso riscoprire alcune gemme di una carriera sessantennale, può essere un buon modo per ricordare a tanti appassionati l’importanza, talvolta sottataciuta,   che ha rivestito Nick Gravenites.

Matteo Bossi

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