Che talento, Muireann Bradley! Un prodigio incredibile, se pensiamo che ha diciott’anni e sfodera una lista di blues vecchi cent’anni, grandi classici che abbiamo amato e ritroviamo nel repertorio dei maestri, sia di chi l’ha cantati restituendoceli in gracchianti registrazioni da vinile a settantotto giri, che nel revivalistico contesto del Village newyorkese d’anni Sessanta, approdo a Newport ed il resto, è storia!
Poi, non smetto mai di pensare che non poteva essere che irlandese, questa “liaison” con un universo blues di tal fatta, di stile pedemontano certo, ma pur sempre oltreoceano e ancorché lontano da quella contea del Donegal, dove nasce invece questa giovane interprete. Sarà l’aria o altro infatti, che lì c’era nato anche Rory Gallagher e il tramite s’accorcia, approssimandosi a quell’imprescindibile mito che sul blues non ci sarebbe altro da aggiungere, tanto più ch’ebbe qualcosa sul lato acustico che molti non ebbero, nella sua rievocazione e riscoperta d’infinito repertorio di pezzi acustici, profondo come una sorsata d’ottima stout, nell’ultima notte dublinese. Così, poco lontano da Ballyshanon, a Ballybofey nel Donegal, nasce la Bradley, che racconta d’aver imparato il blues da suo padre, ed è proprio il caso di dirlo, trasformando quel tempo di chiusure e allontanamento del Covid, in un tempo di qualità.
Non che fosse tutto lì, perché l’humus era già da prima in tutto quel che aveva in casa, a farne un’educazione sentimentale oltreché musicale che, se neppure avesse imbracciato lo strumento, avrebbe avuto quantomeno consapevolezza d’altri mondi e universi emotivi, ormai ignoti a molti giovani di tal fatta, nella voragine comunicativa di vacui contesti familiari, anestetizzati da tremila distrazioni telematiche nel bel mezzo di padri e figli, e così va il mondo. Sociologia spicciola a parte però, non tutto è perduto e sull’improbabile “arca di Noè” prima del prossimo diluvio universale, chi salverà la musica potrebbe essere persino una ragazzina irlandese, col bagaglio d’un’american folk – singer … sull’ultimo treno per Memphis! L’occasione non le manca, or che ha attirato fin l’attenzione della Decca Records, con un prodotto risultato poi di poche riprese di registrazioni non lontano da casa e già all’interesse di un contratto con la newyorkese Tompkins Square; “I Kept These Old Blues” ora riedito con tutti crismi di un debutto su una major.
Che poi sarebbero l’aggiunta di una traccia, “When The Levee Breaks” di Memphis Minnie, che in tempi di documentari “zeppeliniani” al cinema, non può che far bene a chi ne cerca le radici, che per dirla alla Willie Dixon, il resto sono solo i frutti. Rieccoceli allora in quelle versioni nel tramite che fu di Stefan Grossman per “Shake Sugaree”, di Elisabeth Cotten; o del traditional “Vestapol”, così come della stessa “Delia”; quand’anche non poteva mancare un’apertura sulla monumentale “Candyman” di Gary Davis, come della “Stagolee” di Mississippi John Hurt: continuano ad essere il banco di prova, per chiunque s’avvicini al finger-style blues. La Bradley “chitarrista” pare riuscirvi alla grande, giungendo persino a John Fahey (nella sua “Buck Dancer’s Choice”, di Sam McGee); la “voce”, da maturare ancora, sì come attesi sono pure dei pezzi suoi, che potrebbero giocarle bene una svolta; ed una nuova vera promessa per il blues internazionale.
Conosciamo meglio Muireann Bradley in questa intervista esclusiva per Il Blues
Matteo Fratti
Comments are closed