Il 30 aprile 1983 se ne andava Mc Kinley Morganfield alias Muddy Waters, artista la cui importanza per la musica del XX secolo e oltre, rimane tuttora pressoché incalcolabile.
Quale migliore occasione, dunque, per ripescare dagli archivi della nostra rivista alcuni dei tanti scritti a lui dedicati nel corso degli ultimi quarant’anni? Di seguito ecco la retrospettiva pubblicata in origine sul n. 128 e curata da Marino Grandi, su un box che racchiudeva la prima parte del corpus discografico watersiano.
Al termine di essa, come ramificazioni di una enorme quercia ormai più che secolare, trovate link ad altri articoli, recensioni, schizzi, per approfondire e ricomporre un mosaico del grande lascito dell’uomo e dell’artista Muddy Waters.
Avevamo promesso, e senza quasi, che la pubblicazione di nuovo, si fa per dire, materiale discografico non sarebbe stata la molla che avrebbe fatto scattare il nostro interesse per ripescare questo spazio. Ebbene, così non è. Almeno per questa volta.
Potremmo, pateticamente, chiamare a nostra parziale discolpa il fatto che nulla di ciò che potrete rintracciare in questo box di 4 CD della Aristocrat Records inglese dal titolo “Muddy Waters: The Complete Aristocrat & Chess Singles As & Bs 1947 – 1962” sia inedito. E allora perché, al contrario di quanto il mercato discografico offre oggi a badilate (ristampe ciclopiche infarcite di inediti più o meno inutili), imbrattiamo carta (ops…) per parlarvi di cose ormai risapute, anche grazie alla florida messe di ristampe legali o meno a cui è stata sottoposta la discografia di Muddy Waters.
Sarà forse per la caratteristica che contraddistingue questo cofanetto, ovvero quello di affidarsi alla pubblicazione, in ordine cronologico, di tutto il materiale editato in origine su quei supporti discografici che venivano etichettati come “singoli”, al di là del fatto che fossero 78 o 45 giri. In effetti in quegli anni, seconda parte dei Quaranta, era in corso un passaggio importante, anche se allora non ancora definibile nella sua entità, che segnava l’inizio della fine del disco a 78 giri in gommalacca a doppia faccia registrata (in origine il lato inciso era uno solo) introdotto dalla Columbia Records nel 1914, a vantaggio del disco in vinile a 45 giri, anche quest’ultimo frutto nel 1948 della Columbia Records.
Ma se il 45 giri dapprima si limitò a sostituire il 78 giri sia nelle vendite che nei juke box, l’industria discografica cominciò a pensare se fosse il caso di fornire agli acquirenti di un mercato in continua espansione un supporto discografico in grado di contenere un numero maggiore di brani registrati.
Fu così che verso la metà degli anni Cinquanta prese forma il disco a 33 giri (in realtà i giri erano 33 e 1/3) o Long Playing, in grado di ospitare dai 20 minuti e oltre di musica. Questi LP cominciarono quindi la loro vita, che allora ignoravano sarebbe stata gloriosa, come contenitori di brani incisi originariamente in tempi diversi.
Se ciò può permettere di catturare in un solo ellepì progressi, cambiamenti o scivolate manieristiche di un artista nel corso di un diverso arco di tempo, creava nel contempo effetti paradossali come quelli relativi alle prime due incisioni a suo nome: “Gipsy Woman / Little Anna Mae” che, registrate per la Aristocrat nel 1947, apparvero in due diversi 33 giri editati appunto i tempi differenti.
Il primo apparve in “The Real Folk Blues” (Chess 1501), album a lui attribuito ed editato nel 1966 e l’altro nel cofanetto inglese di 4 LP “Genesis: The Beginning Of Rock” (Chess 6641047) che vide la luce nel 1972. Questa funzione antologica del Long Playing, iniziata nel 1958 con “The Best Of Muddy Waters” (Chess 1427), durò, perlomeno per Waters, sino agli anni Sessanta.
Infatti il primo ellepì, concepito come apposito evento discografico creato per l’occasione, fu “Muddy Waters Sings Big Bill” (Chess 1444), pubblicato nel gennaio 1960, a cui fecero seguito le registrazioni effettuate il 5 luglio 1960 che catturarono la sua apparizione al festival di Newport inserite nell’album “At Newport” (Chess 1449) messo in commercio nel dicembre dello stesso anno.
Dovranno trascorrere però altri 4 anni perché un simile evento si ripetesse. Questa fu la volta dello splendido “Folk Singer” (Chess 1433), che prese forma nel settembre del 1963 negli studi al 2120 di South Michigan Avenue, ma venne pubblicato il 30 gennaio 1964.
Però ora ci sembra il momento, dopo questa lunga digressione atta a dare il senso di come questa Retrospettiva non sia una recensione a cui abbiamo allungato il brodo, di scivolare tra i i solchi (ops…) per parlare finalmente del contenuto del cofanetto della Acrobat.
Muddy Waters: la musica
Il primo CD è fondamentale in quanto ci fa comprendere come nacque il Chicago Blues e l’importanza di Muddy Waters in questa operazione epocale. E’ infatti impossibile sfuggire allo stravolgimento sonoro che la sua chitarra elettrica, suonata con il bottleneck, finì per introdurre nel sonnacchioso ed apparentemente ristagnante panorama musicale della Windy City della seconda metà degli anni Quaranta, incentrato per lo più su sonorità tipicamente jump rassicuranti mediate dalle infiltrazioni delle orchestre jazz che andavano per la maggiore.
Eppure se per noi oggi è facile trovare le differenze emotive intrinseche che rendono inconfrontabili sia le tracce registrate da Big Bill Broonzy che le stesse che Waters incise per Alan Lomax nel ’41 e ’42, forse qualche dubbio dovette sorgere anche a chi ascoltava musica allora che qualcosa stava cambiando.
Probabilmente le scalcinate day bands di Maxwell Street che nascevano e morivano nell’arco di un giorno, furono le portatrici di una musica nuova che, nella sua anarchia, però meglio si rifletteva nel nuovo cittadino afroamericano che l’urbanizzazione forzata e la guerra avevano mutato rendendolo cosciente del suo vero ruolo. Diventa persino logico a questo punto che lo sconvolgente uso della chitarra elettrica di Muddy in “I Can’t Be Satisfied” e “Feel Like Going Home” diventi il manifesto della nuova musica. Era l’aprile del 1948, e nasceva quello che il mondo intero chiamerà “Chicago Blues”.
Assistito dal solo Ernest “Big” Crawford al basso, Muddy era riuscito a fondere la forma scandita ed a volte violenta del Delta Blues con quella presente nella realtà urbana ma ormai quasi inaccettabile, ricavandone qualcosa di “diverso” ma sicuramente in grado di catturare l’ascolto del nero “nuovo” ed identificarsi con le pulsioni che lo percorrono. Infatti, se durante la seduta di registrazione negli studi della RCA Victor Leonard Chess sbottò: «Cosa sta cantando? Non capisco proprio cosa sta cantando?», ci volle la pazienza e l’arguzia del suo braccio destro Evelyn affinché le incisioni giungessero alla fine.
E se vi arrivarono fu merito di quanto Evelyn disse: «Eppure credo che quell’uomo stia dando qualcosa di mai sentito prima». Sebbene non convinto, Leo pubblicò l’Aristocrat 1305 e la prima stampa andò esaurita in due ore.
Ed ecco che allora l’idea di Waters si fa giorno dopo giorno più concreta. E’ il caso di “You’re Gonna Miss Me (When I’m Dead And Gone)”, dove la sua slide diventa sottile e persuasiva in modo da amalgamarsi con il suo canto sempre più pieno e deciso. Ma l’esplosione del suo stile avrà luogo nel febbraio del 1950 quando, nella stessa seduta incise “Rollin’ And Tumblin’ Part. 1 & Part.2”, più “Rollin’ Stone” e “Walkin’ Blues”.
Qui il ritmo scarnificato basato sulla voce e la chitarra del leader, con l’aggiunta di Elgin Evans alla batteria, raggiunge vertici impensabili per quegli anni (“Rollin’ And Tumblin’” verrà ripreso un numero infinito di volte da un altrettanto infinito numero di interpreti in modi diversissimi, tra cui quello recente propostoci dai North Mississippi Allstars in “World Boogie Is Coming”), assumendo nella seconda parte una incisività senza uguali.
Il tutto senza sottovalutare “Rollin’ Stone”, versione urbanizzata di “Catfish Blues” di Robert Petway e brano a cui i Rolling Stones devono pure qualcosa, e la “Walkin’ Blues” di Robert Johnson intelligentemente riletta dalle rive del Lago Michigan. Ma le 25 tracce di questo primo compact ospitano anche il passaggio da duo a trio del gruppo di Waters, che accoglie nell’ensemble, e se vi pare poco…, l’armonica di Little Walter, la cui presenza rende più completi i brani, già di per se stessi ben oltre lo standard di quanto il mercato passava, come negli slow “Sad Letter” e “Long Distance Call”.
Al secondo dischetto viene affidato il compito di confermare la potenza espressiva raggiunta dal trio, ovvero quella prodotta da una formazione ancora legata alle radici del Delta Blues, ma nel contempo di mettere in luce la versatilità con cui Waters assume la statura di alfiere delle nuove pulsioni urbane via via emergenti.
Questa introduzione ha il solo scopo di attirare la vostra attenzione su brani dilanianti nella profondità della scansione, “Stll A Fool” (1951), il duo con il solo Little Walter in “All Night Long” con la voce di Muddy perfetto mix tra il Mississippi e Chicago, e quelli con la nuova dimensione della Blues Band in cui si sono aggiunti Jimmy Rogers, Otis Spann, Willie Dixon, da cui emerge quella “I’m Your Hoochie Coochie Man” che diventerà il punto di partenza di tutte le blues band da allora, 1954, ai giorni nostri (alzi la mano quel gruppo che non l’ha mai inserita nel proprio repertorio).
Quasi in concomitanza a tuttociò, possiamo rilevare come la figura di Waters, mentre consolida maggiormente la sua statura di leader della band, inizi a modificarsi. Infatti se ridimensiona il suo status di chitarrista slide, spina dorsale ineguagliabile, a vantaggio di un suo uso più discreto (anche se non meno incisivo), lo correlaziona sia con una presenza più marcata a livello vocale in grado di dominare l’aumento dei musicisti presenti che con una capacità compositiva in grado di rivaleggiare con la prolifica verve di Willie Dixon.
Gli anni compresi tra il ’55 ed il ’58, facenti parte del terzo compact, altro non fanno che confermare la grandezza esplosiva di Waters, oltre che per merito dei componenti delle sopraffine formazioni che lo accompagnano formate da geni in maturazione (Little Walter, Junior Wells), già maturi (Jimmy Rogers, Otis Spann, Willie Dixon), promesse purtroppo perse lungo la strada (Pat Hare), che per la potenza delle tracce che pervadono questo periodo ed il cui valore verrà confermato unicamente dai posteri.
Qualche titolo? “Mannish Boy”, ormai storico brano in coabitazione a livello compositivo con Mel London e Bo Diddley, l’insinuante “Trouble No More”, la ritmica “Forty Days And Forty Nights”, chi diventò il futuro inno mondiale del blues “Got My Mojo Working”, la riflessiva “I Live The Life I Love”, la cattiva “Evil”, la cover aggiornata di “Mean Mistreater”.
La quadrilogia si conclude con il quinquennio ’58-’62, forse il meno convincente di questo lungo excursus. Perché affiora l’impressione che estraemmo dal secondo CD, quando Waters capovolse in parte la sua prerogativa dominante e che lo rivelò: quella di chitarrista.
Ma non è solo il fatto di sentirci orfani dei suoi inimitabili lampi chitarristici a far scadere il discorso musicale, quanto il fatto che a ciò si aggiunsero esperimenti di doppiaggio sia della sua voce che persino della chitarra sulle tracce sonore già incise, presenza di fiati e organo per oltre la metà dei brani con la inevitabile assenza del piano di Spann e dell’armonica.
Per l’amor del cielo non prendeteci per il solito gruppo di “puristi e conservatori” ad oltranza contrario ad ogni modificazione di uno stilema. Infatti come abbiamo amato profondamente la rivoluzione dirompente di Muddy e la sua ibridazione urbana del Delta Blues (al contrario di quanto fecero i nostri parenti prossimi d’oltremanica durante la sua tournée del 1958 nella terra di Albione, similitudine che miscredenti quali siamo appaiamo a quella con cui oltreoceano nel 1965 a Newport venne accolto il tradimento di Bob Dylan quando si presentò accompagnato “elettricamente” dalla Paul Butterfield Blues Band), così ci lasciò, e ci lascia ancora oggi, questa sterzata verso lidi accomodanti ma privi di quel geniaccio creativo che lo aveva animato sino a trasformare brani da picnic o da racconti attorno al fuoco in torrenti di lava.
Eppure qualcosa da ricordare c’è ancora, e non importa se essi si chiamino “Recipe For Love” di Otis Smothers con la sola voce di Waters, “Tell Me Baby” di Big Bill Broonzy senza armonica e piano ma con uno straordinario Pat Hare alla chitarra acustica, o “You Shook Me” di Willie Dixon servita su piatto d’argento ai Led Zeppelin che hanno ancora a venire.
Ma sebbene la nostra storia termini qui, il discorso sui “singoli” di Muddy Waters non finisce con essa. Infatti la loro pubblicazione si concluderà nel 1969, dopo altri 8 esemplari, con l’apparizione del numero di catalogo 2025 contenente “Feel So Good” (traccia registrata il 2 aprile 1969 ma a suo tempo esclusa dal doppio LP “Fathers & Sons”, LP Chess 127) e “Going Home” (incisione solitaria incisa nel novembre dello stesso anno).
Chicago Blues a Km Zero, ma vivo e pulsante al punto di riuscire a straripare dai solchi dei “singoli” per entrarci dentro e rammentarci, qualora non lo sapessimo o ce ne fossimo dimenticati, da dove ha avuto origine la musica rock.
Marino Grandi
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