Nonostante la vittoria di un Grammy nel 1975 per l’ellepi “Woodstock Album” (che sarà l’ultimo lavoro per la Chess), Muddy era in un periodo in cui appariva poco convinto e poco convincente. Era necessario un cambiamento. Bisognava far si che Muddy recuperasse il piacere di suonare la chitarra, soprattutto, come solo lui sapeva fare, in maniera slide, disaffezione questa, alimentata dai postumi dolorosi dell’incidente d’auto in cui era stato coinvolto nel 1969. E chi se non un ammiratore cocciuto e chitarrista come Johnny Winter avrebbe potuto riuscirci. Nonostante si conoscessero da tempo, fu proprio Winter che, nell’ottobre del 1976, entra in scena, oltre che come musicista, anche come produttore. Prendeva forma in tal modo a Westport, Connecticut, Hard Again (Epic 515161) l’album della resurrezione.
Infatti, sostenuto da Johnny che sprizzava adrenalina da tutti i pori e da gente che conosceva il leader come le sue tasche, ovvero James Cotton, Pinetop Perkins, Charles Calmese, Willie “Big Eyes” Smith e il giovane Bob Margolin, Muddy sembra recuperare l’innata energia, che non era svanita ma solo sopita. Basta ascoltare la versione quasi da juke joint di “Mannish Boy”, che venne in seguito usata dalla Levi’s quale colonna sonora di un proprio spot pubblicitario, per veder riesplodere, merito anche della mano chitarristicamente e produttivamente, di Winter, il carisma magnetico che ha sempre avvolto la figura ieratica di Muddy Waters.
Ma la forza di quest’opera non si esaurisce con l’impeto di “Mannish Boy”, ma acquista sempre più consistenza quando spuntano gli episodi di “Bus Driver”, la scansione ritmica di “Deep Down In Florida” e la versione acustica, per chitarre e batteria, di “I Can’t Be Satisfied”, vero gioiello dell’opera.
Marino Grandi (Il Blues n. 88 settembre 2004)
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