In occasione dello scorso Record Store Day, tra le tante pubblicazioni immesse sul mercato del vinile, Alligator ha voluto celebrare il ventennale di “Have A Little Faith” di Mavis Staples con una edizione in doppio Lp e nuove note di copertina col contributo della stessa Mavis. Un momento per riascoltare un disco che occupa un posto di primo piano nella sua discografia, forse anche al di là delle sue qualità intrinseche. Proprio perché rappresenta un momento di svolta nella sua carriera solista, è stato infatti il primo dopo la morte dell’amato padre, Pops Staples, avvenuta nel 2000 e un periodo di comprensibile smarrimento. Ce lo raccontò lei stessa nel corso di una intervista apparsa sul numero 99 de Il Blues, realizzata dopo un suo concerto di ormai diversi anni fa all’abbazia di Morimondo. “è stato un periodo molto difficile per me, non riuscivo a fare nulla, mi chiedevo cosa avrei fatto senza Pops. […] Mia sorella Yvonne mi disse che dovevo continuare, lei si sarebbe occupata di me e avrei dovuto incidere un disco”.

Il disco in questione è, appunto, “Have A Little Faith”. Mavis lo finanziò di tasca propria, non avendo alcun contratto in essere con case discografiche, venne realizzato con l’aiuto e la  coproduzione di Jim Tullio (John Martyn), per poi essere accolto dall’ Alligator. Si tratta di un album che riproponeva accanto ad alcune canzoni nuove, alcuni classici del repertorio di famiglia come “A Dying Man’s Plea” (gli Staple Singers la incisero in “Hammer And Nails”, uscito per Riverside nel lontano 1962) oppure “Will The Circle Be Unbroken”, la prima canzone che Pops insegnò a cantare ai figli. Ci sono senza dubbio ottimi momenti, marchiati dalla voce immortale di Mavis Staples, pensiamo a “God Is Not Sleeping” o “Step Into The Light”, con la partecipazione ai cori dei Dixie Hummingbirds e di John Martyn. In generale la veste che ricopre queste canzoni ha un taglio molto più contemporaneo e arrangiato di quasi tutto quel che Mavis ha registrato in seguito, lavorando con produttori d’eccezione. Come altrimenti definire le figure che si sono susseguite al suo fianco, visto che rispondono ai nomi, in ordine cronologico, di Ry Cooder, Jeff Tweedy, M. Ward e più recentemente, Ben Harper.

Quello che non muta, né qui né negli altri suoi lavori, è il messaggio che la voce di Mavis anima e veicola, con immutata fede e convinzione attraverso le decadi, d’altra parte come cantava, ai tempi della Stax, in un celebre brano scritto da Homer Banks e Raymond Jackson per gli Staples, “I’m just another soldier in the army of love…”. E forse solo il tempo dà la misura di quanto loro musica e quella di Mavis come solista, continui ad essere necessaria.

In questi vent’anni la grandezza della figura di Mavis ha assunto pienamente i connotati che avrebbe meritato da sempre, rendendosi protagonista tuttora di un “terzo atto” straordinario. Raccoglie attorno a sèl’affetto profondo e la stima incondizionata di ogni pubblico che abbia la fortuna di assistere ad un suo concerto, nonché di artisti di generazioni ed estrazioni molto diverse, suggellate da una lunga lista di collaborazioni. L’ultima delle quali l’ha vista sul palco in un teatro di Los Angeles, lo scorso 18 aprile, attorniata da un importante cast di colleghi (Bonnie Raitt, Jackson Browne, Taj Mahal, Chris Stapleton, Jeff Tweedy, Robert Randolph, Keb’ Mo’ e molti altri) per festeggiare in anticipo (li compirà il 10 luglio) i suoi 85 anni. Non resta che unirci, idealmente a questa platea, ringraziandola per la generosità con cui ci dispensa, “joy, happiness, inspiration and some positive vibrations!”, come dice lei stessa ai suoi concerti, da tanti anni a questa parte.

Matteo Bossi

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