di Sara Bao
L’Azkena Rock Festival di Victoria Gasteiz si rivela un evento vincente su tutti i fronti: organizzazione impeccabile, tempistiche rispettate spaccando il minuto, ma soprattutto una line up senza barriere di genere, d’età, di pubblico, di fama. Si passa dal rock tosto dei Queen of The Stone Age, al punk indipendentista basco dei Brigade Loco, passando per il pop radiofonico di Arde Bogotà e la rabbiosa emotività dell’Irlanda di Glen Hansard. Oltre al festival, ci sono anche due eventi paralleli gratuiti nella centralissima Plaza de la Virgen Blanca all’ora di pranzo, giusto per riempire tutta la giornata (e la nottata!) con fiumi di musica.
Dopo questa breve premessa per contestualizzare festival e mood eccoci qui per raccontare quel che per quanto mi riguarda è stato il piatto forte di questi tre meravigliosi giorni di musica: Mavis Staples.
Il cielo è uggioso, comincia a piovigginare, poi smette, poi tira vento, poi ricomincia a gocciolare. Del resto, questa è stata l’edizione più fredda dal 2009. Ma chissenefrega, siamo sotto il palco in primissima fila pronti a ricevere la messa con una predicatrice d’eccezione. Allunghiamo l’occhio a lato palco ed eccola lì seduta su una sedia a rotelle accompagnata da un paio di assistenti. Uno di loro si leva la giacca e le copre le spalle. Cerca di preservare la salute di una delle ultime leggende viventi del gospel / soul / blues americano. O forse, visto come scherzano e ridono assieme dietro le quinte, le vuole semplicemente bene. È giunto il momento. In piedi, uno sguardo alla band, passo sofferente, ma convinto, avanza verso il microfono con le braccia in alto a salutare il suo amato pubblico.
Rick Holmstrom è il direttore d’orchestra che ogni band sogna: una chitarra che chiacchera, sussurra, grida, mormora, abbraccia, detta legge, geme, ride a seconda della situazione. Una bellissima altalena di vuoti e pieni. Mavis Staples sa di avere una spalla grande come Shaquille O’Neal di fianco su cui poter sempre contare. Batteria e basso scandiscono il ritmo in modo impeccabile, ma sempre giocando col groove, mettendo qui e là pennellate di colore che rendono il sound rotondo e gustoso. Un sound “curvy”, oversize, giusto per regalare quelle sensazioni forti, ma al contempo toccanti che solo il soul e il rock combinati col gospel sanno trasmettere.
La messa comincia con il pezzo “City In The Sky”, tratto dall’album omonimo degli Staple Singers uscito per la Stax Records nel 1974. La Telecaster di Holmstrom detta il ritmo grooveggiante assieme a basso e batteria fino a quando Mavis Staples s’incammina verso il microfono, saluta Rick con il pugno, sorride e comincia a cantare. Il pubblico esplode e comincia ad ondeggiare assieme alla band formando un unico fronte compatto di cosiddette “good vibes”.
Si prosegue poi con “I’m Just Another Soldier” che con una coralità da celebrazione religiosa coinvolge tutta la platea, arruolando i presenti nell’esercito dell’amore, costituito per combattere qualsiasi forma di odio. Mavis e band non perdono occasione per trasmettere messaggi, per sottolineare da che parte stanno e da che parte dovremmo tutti stare.
“Hand Writing On The Wall” è un brano tratto dal disco “Carry Me Home” del 2022, album che vede protagoniste delle registrazioni risalenti a unidici anni prima presso i Levon Helm Studios proprio assieme al grande batterista di The Band.
Mavis Staples è visibilmente stanca, guarda l’orologio, si siede, rifiata, ma, quando è l’ora della predica, rapida si alza col microfono stretto in mano e comincia con i suoi sermoni in musica. Cita i Chicago musicians come Muddy Waters, Koko Taylor e Buddy Guy che hanno fatto la storia del downhome blues. Dopo aver concluso l’elenco dice che lei ama Howlin’ Wolf e prova a imitare il suo ululato e dicendo subito dopo “I almost got it” scoppiando a ridere assieme a tutti i presenti. “We come this evening to bring you some joy, some happiness, inspiration, and some positive vibrations. Who wants to feel good? Now I wanna have myself a good time! If you wanna ride you better get on board ‘cause this train is pullin’ out!” E i musicisti attaccano con la magnifica “Who Told You That”, con un lavoro di fino di Holmstrom alla chitarra, giocando su acidità, tocchi scanditi e soli grintosi, pregnanti, dritti al punto senza tanti fronzoli. Ritmica e melodia, tutte e due sue, con una padronanza dello strumento incredibile. Le coriste arrotondano gli spigoli con cori caldi, andando a supportare elegantemente la ragazza del ’39 che dirige lo spettacolo.
Senza nemmeno un secondo di stacco i musicisti partono subito col pezzo successivo che è uno di quelli che in cuor mio speravo tanto di sentire dal vivo: “Can You Get To That” dei Funkadelic, uscita nel lontano 1971 e contenuta nel geniale album “Maggot Brain. Mavis ha inciso la sua versione nel 2013 all’interno di “One True Vine” e finalmente in questa occasione l’ha portata anche sul palco. Steve Mugalian alla batteria e Gregory Boaz al basso stendono un tappeto di groove sopra cui Holmstrom sfila in tutta la sua Telecasterità, con stile e gusto. Altro che modaioli, questi incarnano l’Intramontabile, l’Evergreen, l’Imperituro, mandando tutti a scuola. Le coriste circonfondono con grazia la voce grintosa di Mavis Staples, facendo da ascensore umano al sound e pigiando il bottone dell’ultimo piano, quello dove abita Dio. Pare proprio di raggiungere qualcosa di oltre, di superiore, di extracorporeo a sentire questi suoni e queste voci, vivendo attimi estatici di pace col mondo.
Piccolo momento di pausa per coordinarsi e rifiatare prima di affrontare il pezzo seguente, “Oh La Di Da”, singolo degli Staple Singers uscito nel 1973. “Se senti di voler battere le mani, se hai voglia di ballare, se ti va di cantare, avanti, avanti, avanti! Canta ora oh la de da, oh la de da!” e avanti così con la platea che canta, ondeggia, batte le mani e ride di gusto. Siamo nel clou della festa, c’è gente di tutte le età, proveniente da un sacco di posti diversi, c’è chi sa chi ha di fronte e chi invece è lì per pura curiosità senza immaginarsi minimamente dentro a cosa è finito. E ne esce stupito, sorridente, gioioso, incredulo (soprattutto dopo aver letto su internet che la signora ha quasi 85 anni).
Tocca ora a “Respect Yourself” tratta da “Be Altitude: Respect Yourself” (1972) con un testo che dovrebbe essere inserito nei libri scolastici assieme alle poesie di Bob Dylan e De Andrè: “Se non rispetti nessuna delle persone che incontri, come puoi pensare che qualcuno sia disposto a rispettare te?” e ancora “Insulti le donne e non sai nemmeno i loro nomi, e sei così stupido da pensare che questo ti renderà un grande uomo”. Le parti che cantava il compianto Donny Gerrard qui vengono intonate dal poliedrico Rick che, oltre ad essere un chitarrista coi fiocchi, sa gestire benissimo pure la voce. “Rispetta te stesso”, un mantra che è bene ripetersi ogni giorno, magari ascoltando proprio questo magnifico pezzo.
Mavis si siede un attimino davanti alla batteria, cercando di tener duro per la seconda parte del set. Guarda l’orologio, sorseggia il suo tè, l’espressione un po’ seria, pensierosa, lascia poi spazio ai suoi consueti sorrisi. Nelle brevi pause tra un pezzo e l’altro, regna il silenzio, proprio come in chiesa, interrotto solo da momentanee grida di qualche “illuminato” tra il pubblico. “Thank you Mavis! We love you!”. Lei sorride, guarda il cielo, apre le braccia, si stringe le mani sul petto, scuote la testa e risponde: “Ahhhhh nooooo…I love you more! Trust me!” E giù a ridere ancora, con la pella d’oca che si alza sulle nostre braccia e la consapevolezza di essere lì a vivere momenti irripetibili.
Siamo già oltre la metà del concerto e tocca ora a “Let’s Do It Again”, una dolcissima love song impregnata di profumo di fiori, fresco vento d’estate, nessuna preoccupazione. Rick e Mavis improvvisano un tenero scambio di battute come fossero due giovani innamorati alla fine del quale entrambi ridono di gusto guadagnandosi gli applausi del pubblico. Il traditional “I Belong To The Band” torna su ritmi più accesi, infiammando la festaiola platea dell’Azkena Rock Festival con coretti gospel densi di sacralità, ma al contempo dediti al diabolico fuoco del rock.
Si torna poi su melodie più dilatate con la toccante “You Are Not Alone”, tratta dall’omonimo album in studio, uscito per Anti-Records nel 2010. “Noi sei solo, io sono con te, sono solo anch’io. Una casa disfatta, un cuore rotto, isolato e impaurito. Apriti, questa è un’incursione, voglio arrivare fino a te, tu non sei solo”.
Ci si fionda verso la parte finale del set con “Slippery People”, brano dei Talking Heads (1983), rifatto l’anno successivo dagli Staples Singers con un deciso cambio di sound rispetto alla produzione del decennio precedente. La chitarra se la spassa alla grande con la ritmica tessendo un molo galleggiante su cui la voce di Mavis può sfilare in tutta sicurezza e attraccare quando ne ha necessità. Basso e batteria stringono il tutto con una bella gassa d’amante a tenere stretto a terra questo groove che vorrebbe ad ogni costo disarcionarsi e veleggiare in mare aperto.
Lo show si conclude con un cavallo di battaglia degli Staple Singers, “Heavy Makes You Happy” (1971). “Sha-na-boom boom, yeah, Sha-na-na-na-boom boom, yeah!” e via con cori a profusione, senso di festa all’ennesima potenza, battiti di mani (e di cuori!) a mille, sorrisoni e qualche lacrima che comincia a presentarsi all’angolo degli occhi, pronta a seguire la forza di gravità.
Un concerto impressionante per intensità, gioia ed emozione.
Un concerto che lascia un segno interiore non indifferente: Mavis Staples & Band tracciano le loro iniziali sulle anime dei presenti come una sorta di Zorro, paladini del groove e delle good vibes.
Ci sono due categorie di persone: quelle che vanno verso il palco successivo e quelle che si fermano lì ancora un po’ a osservare il palco mentre viene sgomberato, sbirciando i musicisti al lato con l’asciugamano attorno al collo e lo sguardo stanco, ma soddisfatto. Io faccio parte della seconda categoria, di quelli che una volta tornati a respirare dopo un’ora di apnea, lasciano sgorgare finalmente le lacrime, abbracciando stretto chi è lì a vivere gli stessi momenti di emozioni estreme, bellissime, ma al contempo dolorose, con la consapevolezza di essere vicini ad un turning point, che la discesa è già iniziata da un bel pezzo ed è meglio godersi gli ultimi giri di questa lunga, intensa giostra.
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