Una manifestazione come questa, arrivata all’edizione numero ventitre si appoggia su alcune basi, solidificatesi negli anni, innanzitutto il pubblico di appassionati e non, fidelizzato e costante. In secondo luogo l’organizzazione rodata e la composizione di cartelloni che offrono blues in varie incarnazioni, soul, rhythm and blues e almeno un rappresentante dello zydeco. E’un criterio tracciabile anche per quest’anno, inaugurato, la sera di giovedì 16 novembre da Doug McLeod. Di ritorno al festival dopo ben quattordici anni, Doug si conferma musicista di qualità, dallo spiccato gusto da storyteller. Porta in dote il recente album “Break The Chain”, dal quale attinge alcuni brani quali “Travel On”. Esegue solo pezzi suoi, scherza col pubblico, forse si dilunga nel parlato, ma i suoi pezzi sono spiritosi, la  hookeriana “Vanetta” o fanno pensare come la title track dell’album di cui sopra, preceduta da una lunga introduzione parlata in cui racconta la genesi del pezzo, una storia contro gli abusi di qualsiasi tipo, scritta col figlio Jesse.

 

Foto di Philippe Pretet

A seguire l’ensemble texano degli Eastside Kings, a supportare inizialmente la cantante e chitarrista mancina Cookie McGee, Titolare di CD su JSP e uno su Wolf, la McGee anima un set discreto, senza cadute di tono, seppur senza picchi particolari e con una certa uniformità di fondo. Valido però il contributo dei Kings, con Eddie Stout, fondatore dell’etichetta Dialtone al basso e Jay Moeller alla batteria, oltre a Nick Connolly alle tastiere e Steve Fulton alla chitarra.

Foto di Philippe Pretet

Più dinamico il set con l’ingresso in scena dell’armonicista Gene “Birdlegg” Pittman, trasferitosi in Texas dopo aver girovagato in diverse parti degli States, soprattutto in California. E’ un tipo esuberante, non sta fermo un attimo e soffia nella sua armonica con incessante energia, saltabeccando divertito da una “If You Love Me Like You Say” a qualche brano dal suo disco edito proprio dalla Dialtone qualche anno fa, come “Good Time Blues”. Nel finale passa addirittura ad un medley tra “Sex Machine” e “Thank You (Folettinme Be Micelf Agin)”.

Foto di Philippe Pretet

La band successiva viene dal Brasile, i fratelli Igor e Yuri Prado (chitarra e batteria) di supporto alla cantante emergente Annika Chambers. Texana di Houston, dopo alcuni anni nell’esercito americano ha registrato due dischi, il più recente lo scorso anno. Il binomio è già collaudato in tour in Sud e Nord America e la Chambers attinge parecchio da “Wild And Free”, cose come “Ragged And Dirty” di Luther Allison, “Put The Sugar On Me” o “Better Things To Do”, ma anche cover classiche come “Proud Mary”. Malgrado qualche occasionale squilibrio, il set vive soprattutto sull’energia straripante e sul sex appeal della Chambers che occupa il palco con personalità.

Foto di Matteo Bossi

Quarto gruppo della serata quello di Grady  Champion, cantante, armonicista e chitarrista di Canton, Mississippi, sotto contratto con la Malaco. Accompagnato da un quartetto compatto, Champion inizia da “Downhome Blues” di uno dei suoi artisti preferiti, Z.Z. Hill, alterna cose sue e poi cala altri due classici proposti in versioni allungate, “Smokestack Lightnin’” e “Shake Your Moneymaker”, con tanto di passeggiata nella sala del Casino. E’ un blues compatto e piuttosto muscolare, tuttavia più coerente rispetto ai suoi dischi, e Champion è armonicista competente, anche quando imita il suo riferimento Sonny Boy Williamson.

Foto di Philippe Pretet

Ritroviamo gli Eastside Kings in apertura della serata di venerdì, dietro all’ottantenne Classie Ballou, chitarrista e cantante di origine creola, nativo del sudovest della Louisiana ma trasferitosi da anni a Waco, Texas. “Mia mamma non parlava inglese” dice tra un brano e l’altro, prima di suonare “Hey Mama!”. Ha lavorato molto come sessionman ed ha qualche disco a suo nome. Ballou sembra divertirsi ancora, confabula ogni tanto coi musicisti sulla tonalità del brano da eseguire, «yeah baby, thank you baby» è il suo intercalare. Suona qualche strumentale dal sapore creolo, qualche classico come “Just A Little Bit”, “la suonavo con Rosco Gordon, molti anni fa, il riff di chitarra è mio”. “Chuck Berry è morto, Fats Domino anche e B.B.? Ah sì anche lui» dice prima di suonare “The Thrill Is Gone”. Ballou è della vecchia scuola ed ha un modo di suonare che combina elementi diversi, dispensa sorrisi e buonumore.

Foto di Philippe Pretet

Di altro tenore ma riuscito il concerto di Mike Ledbetter e Monster Mike Welch, la cui collaborazione nata al Chicago Blues Festival del 2016 per un tributo a Otis Rush è sfociata in un bel disco, “Right Place, Right Time”. Dal vivo possono contare sull’esperto Anthony Geraci alle tastiere, Jay Hansen alla batteria e Scott Sutherland al basso. Ci sono le atmosfere west side soul di “I Can’t Stop Baby”, “Kay Marie”,  l’Elmore James di “Cry For Me Baby” o un pezzo dedicato ad Annika Chambers che è a bordo palco e sale divertita a ballare con Ledbetter. Ledbetter, dopo anni accanto a Nick Moss, canta con grande convinzione, modula tonalità proibitive per molti e non si risparmia affatto. Gli fa da complemento paritario Mike Welch che da giovane prodigio oltre vent’anni fa, si ritrova nemmeno quarantenne, con una maturità e una fluidità alla chitarra superiore, sapendo quando spingere sull’acceleratore e quando fare un passo indietro e lasciare che la voce del socio prenda in mano il pezzo. Di rilievo anche il contributo di Geraci, partner di Welch anche nella band di Sugar Ray & The Bluetones.

Foto di Philippe Pretet

Per sostituire Denise LaSalle, difficilmente si poteva pensare ad una scelta migliore di Don Bryant accompagnato, come nel suo disco di rilancio edito da Fat Possum, dai Bo-Keys capitanati da Scott Bomar (basso), con Joe Restivo alla chitarra, Dave Mason alla batteria e il veterano Archie “Hubby” Turner alle tastiere, oltre ad una piccola sezione fiati. Pimpante e senza alcun cedimento vocale, Bryant, vale la pena ricordarlo, ha all’attivo qualche singolo e un LP uscito nel 1969 su Hi, mentre si è poi accontentato di lavorare come autore accanto alla moglie, Ann Peebles. Parte in quarta con una bella versione di “A Nickel And A Nail” (O.V. Wright), per poi passare ad una stupenda ballad, “Don’T Give Up On Love” o il recupero di “I Got To Know” che nel lontano 1960 scrisse per i 5 Royales. Bravi i Bo-Keys, gruppo che in questo tipo di atmosfere non teme rivali, “Can’t Hide The Hurt” e il resto del repertorio del disco, come “First To Cry”, scorrono in interpretazioni impeccabili, così come il recupero dell’antico singolo Hi “Don’t Turn Your Back On Me”. Da segnalare il commovente omaggio all’amico scomparso e beniamino di Lucerna Otis Clay, attraverso la sua “It Was Jealousy”, una sua canzone incisa sia da Clay che dalla Peebles. Finale col grande hit della moglie (di cui è coautore), “I Can’t Stand The Rain”. Soul d’annata, con un interprete recuperato e dalla voce intatta.

Foto di Philippe Pretet

Il compito di succedere a Bryant sul palco spetta a Tom Holland, chitarrista e cantante per anni al servizio di James Cotton, qui alla testa degli Shufflekings, un trio con l’esperto Marty Binder alla batteria e ospite l’armonicista Omar Coleman. Holland è un chitarrista di valore e intesse belle dinamiche sulla sua Stratocaster, in evidenza su episodi come “I Wouldn’t Treat A Dog” o “Look Here Baby” o ancora una “Shuffle King Boogie”. Coleman ha un ruolo di contorno che svolge con diligenza, prende il microfono per cantare un pezzo verso la fine, “Jody Got Your Girl And Gone”. Un set di buon Chicago Blues.

Foto di Philippe Pretet

L’ultima sera si apre la curiosità di vedere all’opera Robert Kimbrough Sr, figlio d’arte, dopo averne apprezzato i dischi usciti nel corso dell’ultimo anno e mezzo. La delusione che il dipanarsi del concerto purtroppo ci porta, è da imputare non tanto al buon Robert, quanto ai suoi accompagnatori. Un trio di Dallas, guidato dal chitarrista Scott Lindsey col quale ha collaborato su disco. In ogni caso per una musica come quella di Kimbrough, fatta di dinamiche, respiro e groove, una sezione ritmica di stampo rock è inadeguata e vanifica qualsiasi tentativo di ricondurla verso Holly Springs e dintorni. Anche la chitarra di Lindsay, malgrado i suoi proclami di devozione a Junior Kimbrough, sembra distante anni luce, fraseggi rock e anche piuttosto duri. Poco importa quindi che i titoli fossero “You Better Run” o “All Night Long”, l’appiattimento esecutivo li rendeva intercambiabili. Peccato perché il suo hill country blues o meglio, come piace dire a Kimbrough Senior, il “cotton patch blues” ha tutt’altra pasta e consistenza.

Foto di Philippe Pretet

Tocca poi all’ensemble guidato da Anson Funderbugh, chitarrista di gran classe, attorno al quale si trovano il batterista Big Joe Maher, anche cantante, Christian Dozzler austriaco trapiantato in Texas, piano/accordion e voce, John Street all’organo ed Eric Pryzgocki al basso. E’ gruppo di musicisti di indubbia esperienza, Funderburgh fa quasi un passo indietro e lascia suonare i colleghi, occasionalmente dispensando il suo chitarrismo dal particolare fraseggio. comincia al canto Dozzler con qualche classico come “Something You Got” e un paio di brani con la fisarmonica, un esplicito omaggio a Clifton Chenier. Big Joe canta a sua volta diversi brani, con una vena rhythm and blues vecchio stile, “You Can’t Keep A Big Man Down” ad esempio. Nel finale invitano sul palco anche Mike Welch, sempre bravo, e il giovane connazionale (nostro) Dany Franchi, per il quale Funderbugh oltre che un riferimento come chitarrista, è diventato mentore e produttore del suo nuovo album inciso a Austin.

La band di Kid Ramos, chitarrista di vaglia a sua volta e ripresosi da problemi di salute, vedeva  i rodati Jimi Bott e Willie Campbell come sezione ritmica, ancora Geraci al piano e al canto e all’armonica l’olandese Big Pete. E’ uno spettacolo che gioca molto sulle abilità strumentali, sia di Ramos che dell’armonicista, a suo agio in riprese come “Come On In This House” o “Automatic”, con riferimento in quest’ultimo caso ad uno dei suoi eroi, Lester Butler.

Foto di Matteo Bossi

Come ogni anno chiude lo zydeco col gruppo di Terrance Simien, The Zydeco Experience, un quintetto con anche la presenza di un trombettista, Curtis Watson. Simien tramuta subito il concerto in una festa, lancia collanine di diversi colori a chiunque e invita alle danze. Raggiunto dopo qualche pezzo dalla figlia Marcella a sua volta cantante e strumentista. Repertorio a metà strada tra zydeco tradizionale e qualche incursione altrove, «questa non è una canzone zydeco e neanche blues, ma è una bella canzone» dice introducendo “The Weight” (The Band) e di lanciarsi in un medley tra “You Can’t Always Get What You Want/Love The One You’re With”.

Al Casineum intanto andava in scena il concerto della band vincitrice del Challenge Europeo, i nordirlandesi capitanati da Kaz Hawkins. Non hanno deluso, ed anzi hanno dato vita ad un concerto coinvolgente, culminato invitando sul palco Mike Ledbetter per una jam eccellente che l’ha visto impegnato, con la leader vocalist Kaz, a dare ad una versione indistruttibile di “Hoochie Coochie Man” . E’ tutto anche per l’edizione 2017.

 

 

Matteo Bossi e Marino Grandi

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