Lucerna Blues Festival

Niente “torta con le candeline” e “fuochi d’artificio sul lago” per festeggiare i vent’anni del festival della città della Svizzera tedesca, è bastato il solito ricco cartellone di artisti e tanta presenza di pubblico. L’oliata macchina organizzativa ha iniziato a funzionare dal giorno 8 novembre con concerti nelle hall di un paio di Hotel di Lucerna, prima dell’inizio ufficiale al Grand Casino dove per tre sere, da giovedì 13 a sabato 15, i concerti hanno avuto inizio dalle ore 19.00 nella sala principale, per poi continuare fino a notte inoltrata in un’altra zona della struttura, il Casineum Club Stage, per una sorta di “dopo Festival”. Come si può dedurre, seguire tutto dall’inizio alla fine è stato impossibile, bisogna avere un “fisico bestiale” per non essere sopraffatti da momenti di stanchezza e cali di attenzione, causa anche la mancanza di posti a sedere nella sala principale.

Foto di Philippe Pretet

Foto di Philippe Pretet

Tutti in piedi dunque e via alle danze, giovedì 13 novembre, con un noto gruppo di Lucerna, Richard Koechli & The Blue Roots Compagnie, stilisticamente in movimento fra Chicago e Texas. Il primo musicista americano salito sul palco è il bianco armonicista/cantante John Németh, il quale dopo essersi trasferito a Memphis ha allargato il suo orizzonte al soul e r&b (vedasi il recente CD con l’accompagnamento dei Bo-Keys), momenti questi poco fruibili dal vivo se non si hanno accanto uno o più fiati o un Hammond. Ed è proprio lì (“If It Ain’t Broke” ne è un esempio) che il suo concerto ha avuto cali di tensione, mentre sul versante blues si è dimostrato un valido alchimista fra passato e presente, bella in tal senso “Blues In My Heart”, ben supportato da, chitarra, basso e batteria. Il primo disappunto è per Trudy Lynn Revue feat. Steve Krase. La cantante neroamericana, tutta “rossa dalla testa ai piedi”, ha messo in scena un concerto a dir poco imbarazzante, con un tentativo di riproporre il suo passato di cantante soul e blues, sottoponendolo ad un esasperato suono elettrico, sacrificando sull’altare dell’inutilità una lunghissima e tediosa versione di “Got My Mojo Working”. Chiusura con un ritorno gradito sul palco del Festival dopo alcuni anni, i Mississippi Heat di Pierre Lacocque. Portavano in dote il loro bel “Warning Shot” su Delmark, ma scontavano purtroppo la defezione per motivi di salute della cantante titolare, Inetta Visor, rimpiazzata all’ultimo dalla giovane Carla Stinson. Dopo uno strumentale introduttivo ecco la Stinson, che fa indubbiamente del suo meglio per “The River’s Invitation” e “I Don’t Know”. Poi il canto passa ad uno dei due chitarristi, Michael Dotson (l’altro è Giles Corey), per “Yeah Now Baby” e “Evaporated Blues”. Lacoque è proprio bravo e sensibile nei suoi interventi di armonica, la band funziona, anche il batterista, l’impeccabile Kenny Smith, canta un pezzo “What Cha Say?”. Richiamano la Stinson per l’ultima parte del concerto, condotto con passione e professionalità da Lacocque  e concedendo spazio anche a Giles Corey per un paio di assolo.

Foto di Marino Grandi

Foto di Marino Grandi

Arrivati “leggermente” in ritardo la sera di venerdì 14 novembre, abbiamo perso una  parte del concerto di Kara Grainger Band. Per quel poco che abbiamo potuto ascoltare e vedere, ci è parso che la giovane chitarrista/cantante australiana, abbia speso le sue energie più sull’essere che sull’apparire, simpatico il rock’n roll “No Way That You Can Hurt Me Now”,  non disperdendo un blues elettrico sapientemente influenzato, senza dimenticare una parte acustica, l’unica di tutto il Festival! Prossimamente su “Il Blues”, torneremo su di lei. Arriva il turno del Chicago Blues e Dave Specter sale sul palco con i bravi Marty Binder, Harlan Terson, Sam Burckhardt al sax, per un paio di pezzi del suo album, tra cui la title track “Message in Blue”.

Foto di Matteo Bossi

Foto di Matteo Bossi

Tutti attendevamo trepidanti Jimmy Johnson e lui appena messo piede sul palco ha assunto, con gran naturalezza, il ruolo del leader, gli bastava un cenno del capo per dettare tempi e dinamiche. Fresco ottantaseienne in forma olimpica, Jimmy si è lanciato con voce felicemente intatta, in alcuni capisaldi del suo repertorio, “Little By Little”, poi il blues in minore “Cold Cold Feeling”, da cui il nostro cava ancora una volta una versione di bella fattura. Ecco poi un altro piccolo classico uscito dalla penna di Fenton Robinson, “You Don’t Know What Love Is” con fraseggi di chitarra fluidi e carichi di emozioni. Molto bella anche “End Of A Rainbow”, «questa non è proprio un blues ma mi piace molto, l’ha scritta il mio amico McKinley Mitchell», dice Jimmy introducendola. Il finale è sulle note di “Chicken Heads”, con brevi assolo dei musicisti, richiamati subito all’ordine dal divertito Johnson. Ottimi Specter e la band, davvero tutti al servizio della musica, ne è venuto fuori un gran concerto, il vertice almeno per noi dell’intero festival.

Gli organizzatori del Festival sono legati, più di altri, ad Otis Clay e, coincidenza vuole, che il 14 novembre del 2003, il suo ottimo concerto fu registrato e riportato su CD intitolato, “In The House”. Come sempre la formazione era al gran completo (al cui interno c’era il noto trombonista di soul e r&b, Leon McFarland), con in più Johnny Rawls con il quale Clay ha condiviso l’ultimo lavoro discografico, “Soul Brothers”. Il concerto è stato aperto dal suddetto Rawls, un onesto cantante che ha offerto due discrete versioni di “Red Cadillac”, “Turning Point” e “Turn On Your Love Light”. Poi è salito Otis Clay ed ha acceso, fin dalla splendida “Walk A Mile In My Shoes”,  il caldo fuoco del soul/r&b, momentaneamente spentosi per attimi di tensione dovuti ad un malore del sassofonista, accasciatosi sul palco dopo un assolo. Fortunatamente tutto si è risolto al meglio e Clay, rincuorato, ha duettato prima con Johnny Rawls, poi ha chiamato sul palco per un pezzo, il chitarrista Dave Specter, ed infine ha offerto una buona versione della soul ballad “This Time I’m Gone For Good”, per passare poi da “I Can Take You To Heaven Tonight”, a “Try To Live My Life Without You” e terminare con “Take Me To The River”.

Foto di Philippe Pretet

Foto di Philippe Pretet

Gli anni passano anche per lui, ma per alcuni episodi la sua voce era ancora enfatica! Chiudono la serata al Casino i losangeleni The 44s, un quartetto di giovani bianchi guidati dal cantante e chitarrista Johnny Main, con ospite Kirk Fletcher. Fanno un blues / roots rock di buona caratura, senza eccessi, non male  anche il contributo di Jacob Huffman all’armonica. Forse un filo troppo omogeneo il loro set, tuttavia hanno tenuto il palco con disinvoltura, cosa non così scontata, specialmente venendo dopo uno dei beniamini del pubblico come Clay.

 L’ultima serata è aperta dalla band del massiccio Sugaray Rayford, un gruppo giovane con tanto di organo, tastiere e sezione fiati, in cui figurava come ospite un altro habitué di Lucerna, Bob Corritore. Voce tonante, spontaneità e gran foga, caratterizzano l’approccio di Rayford, band con qualche occasionale incertezza (specie nei fiati), compensata dalla carica del leader. Qualche cover “I’ll Play The Blues For You” («dovrebbero essere l’inno nazionale del blues» dice lui) e “Born Under A Bad Sign” con bell’assolo di Corritore, che per il resto fatica a trovare spazio in una formazione tanto allargata. Cambio di atmosfera deciso con Cyril Neville e il suo quartetto con Cranston Clements alla chitarra (sessionman molto richiesto), Yonrico Scott alla batteria (ex Derek Trucks Band e collega di Cyril anche nei Royal Southern Brotherhood) e Charls Wooten al basso. Neville più che altro si dedica al canto, oppure occasionalmente alle percussioni, lo fa con profusione d’energia e anche i pezzi del suo ultimo CD su etichetta Ruf, acquistano maggior consistenza, “Something’s Got A Hold On Me”. Siamo beninteso un più in campo di piacevole rock / soul con qualche accento di New Orleans funk soprattutto nel finale (“Tipitina”).

Insieme a quello di Jimmy Johnson, il concerto di Delbert McClinton (da noi molto atteso), è stato il migliore del Festival. E’ uno di poche parole, non ama i convenevoli e il rituale di introduzione della band. Sale subito sul palco e per un’ora e mezza non ha staccato un attimo, un pezzo via l’altro con una band compresa di fiati, che girava a mille con stacchi e cambi di tempo da applausi, mentre lui quando non cantava e non suonava l’armonica, muoveva le dita come fosse un direttore d’orchestra, ma non per dirigere i musicisti, ma perché probabilmente compiaciuto da tanta compattezza.  A McClinton è rimasta quella voce roca e resistente e gli è rimasta quella  disarmante naturalezza nel passare dal r&b al rock’n’roll, dal blues alle soul ballad, pescando pezzi dal suo vasto repertorio: “I’m With You”, “New York City”, il bluesaccio “Rebecca, Rebecca”, le ballad “Starting A Rumor” e “You Were Never Mine” e ancora, “Shakey Ground”, “Giving it Up For Your Love” e “Old Weakness (Coming On Strong)”.

Foto di Matteo Bossi

Foto di Matteo Bossi

Come ogni anno spetta ad un gruppo di zydeco l’ultimo concerto. Stavolta  è stato scelto uno dei rappresentanti della “vecchia guardia”, Buckwheat Zydeco.  Il suo gruppo comprendeva anche  un trombettista e Buckwheat conduceva le danze, tra una lunga “What You Gonna Do”, un passaggio su “Ma Petite Fille” e un paio di pezzi in cui si è seduto per suonare l’organo Hammond. Il tutto scorre senza sussulti, tra il pubblico, ancora numeroso molti si lasciano andare ballando al ritmo dello zydeco. Visti seppure parzialmente al Casineum, anche il trio dell’armonicista svizzero / cambogiano Bonny B, ricordiamo alcuni classici ben eseguiti come “Going Down Slow”. Presenti anche gli spagnoli A Contra Blues, gruppo vincitore dell’ultima edizione dell’European Blues Challenge, apparsi almeno per quanto abbiamo potuto vedere, abbastanza emozionati. Vent’anni non sono pochi, specialmente per una manifestazione dedicata a blues e affini, il Lucerna Blues Festival li ha festeggiati in piena salute, resta un appuntamento in cui musicisti e appassionati condividono il piacere di ritrovarsi. Noi glielo auguriamo per gli anni a venire.

Matteo Bossi    e  Silvano Brambilla         

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