Premessa: ho perso il conto delle volte che ho parlato di “Belly Button Window” con Marino. Ogni volta che ci sentivamo, ed era sempre un grande onore, nonché un piacere, confrontarsi con lui, mi diceva che avrei dovuto scrivere un articolo su quella canzone di Jimi Hendrix. Eravamo d’accordo che sarebbe successo, prima o poi, ma ogni volta nasceva un’idea più urgente e l’articolo, un po’ proprio come capita al protagonista della canzone, restava indeciso se nascere, oppure no. L’ho finito e lo dedico a Marino nel ricordo di un maestro gentile, acuto, ironico e generoso. Con lui non imparavi il blues, ma a stare al mondo.
Ognuno ha un suo modo peculiare per arrivare al cuore di una canzone e spesso, se non proprio ogni volta, il percorso non così lineare. Le sorprese sono dietro l’angolo e, a volte, bisogna proprio cercarle. È proprio il caso di “Belly Button Window” di Jimi Hendrix, incisa agli Electric Lady Studios di New York sabato 22 agosto 1970 e pubblicata su “Cry of Love” (l’album assemblato ormai postumo) il 6 marzo 1971 (e in seguito su “First Rays of the New Rising Sun” nel 1997). È una composizione enigmatica, ombrosa e ambivalente, anche se si tratta solo (si fa per dire) di Jimi Hendrix e della sua chitarra. Harry Shapiro e Caesar Gleebbek in “Una foschia rosso porpora” (Arcana) identificandola come “basata su una melodia country blues per chitarra senza accompagnamento”, la definiscono “decisamente originale e personale”. Nella sua straordinaria lungimiranza, secondo Marino Grandi era davvero qualcosa di più: “Uno dei più grandi blues di sempre”. Siamo d’accordo.
Jimi Hendrix ci arriva in un periodo di turbolenze, non insolite, ma che cominciano a farsi via via più pesanti. Le circostanze sono avverse: gli studi sono costati uno sproposito, è stanco di andare in tour senza sosta, ma è atteso in Europa. Vuole cambiare: ammira Miles Davis che, come è noto, ha rivoluzionato più volte il corso della sua musica ed è in quelle mille direzioni che vorrebbe andare. Ci sono però delle ombre personali che lo inseguono. In una lunga lettera dalle Hawaii al padre Al parla del rapporto e della situazione con la madre Lucille. Come riportato da Charles R. Cross in “La stanza degli specchi” (Kowalski) scrive, tra l’altro: “Un giorno forse arriverò a porti domande di grande importanza ed esperienza (tornati alla normalità). Di storie che non hanno risposta e della vita della madre che mi ha creato, Miss Lucille. Ci sono cose che devo sapere di lei per motivi miei, strettamente personali”. Nello stesso tempo deve affrontare la causa per il riconoscimento della figlia, Tamika, intentatogli da Diana Carpenter. Non proprio l’atmosfera giusta per uno che nell’aprile 1970 in un’intervista a John Burks riportata da Maurice James in “The Guitar Experience” (Auditorium) diceva: “Il più delle volte scrivo alla chitarra. Per lo più me sto in giro sognando a occhi aperti e ascoltando ogni genere di musica. E non riesci, se vai alla chitarra e tenti di suonarla, rovini tutto, capisci? Non so suonare la chitarra abbastanza bene da tenere insieme tutta questa musica”. Incredibile.
E così Hendrix è solo nel ventre degli Electric Lady a modellare questo blues. Le incisioni e il lavoro vanno avanti da tutta l’estate. Un fiume di canzoni, improvvisazioni e jam viene riversato su nastro con l’idea di arrivare alla definizione di un album. “Straight Ahead,” “Room Full Of Mirrors,” “Ezy Rider,” “In From The Storm,” “Drifting,” “Angel,” “Dolly Dagger”, “Freedom” e, appunto, “Belly Button Window” sono i titoli che scorrono nelle notti afose di New York. La sera del 22 agosto 1970 dopo aver lavorato ai rough mix di diverse canzoni, Jimi Hendrix butta giù “Belly Button Window” e il tecnico del suono Eddie Kramer ricorda così quel momento: “La registrammo come provino e ci piacque tantissimo”. Hendrix sovraincise una seconda chitarra e lo stile, nel parere di Eddie Kramer, ricordava Mose Allison: “Se fosse rimasto vivo sono sicuro che Jimi avrebbe fatto qualcosa di diverso. Anche come provino comunque era una canzone coi fiocchi”. Non è solo la chitarra.
Un’opinione d’annata, quella di Lillian Roxon nella sua “Rock Encyclopedia” (minimum fax) merita di essere riletta per l’occasione: “Innanzitutto Hendrix era un eccellente autore di testi. Gran parte del materiale era suo. Faceva anche roba di Dylan e la migliorava” e naturalmente viene spontaneo ricordare insieme a lei la sua versione di “All Along The Watchtower”, a suo modo definitiva. C’è anche un altro aspetto, molto interessante, che sottolineava la Roxon (e siamo nel 1969): “Se riesce a cavarsela solo con teatralità e pirotecnia, lo fa. Ma se il suo pubblico gli chiede la musica, e lui se ne accorge, mette da parte le spinte pelviche e non si sente più in dovere di ringhiare le parole come un leone arrapato. Piuttosto si assesta su un lavoro di chitarra da bluesman serissimo, di quelli che quando i colleghi musicisti lo nominano abbassano la voce per rispetto”.
“Belly Button Window” è un blues anomalo, costruito con due chitarre, destinato con ogni probabilità a una successiva rilettura, ma già nitido nella sua forma. Le interpretazioni sul senso di “Belly Button Window” invece divergono. Per qualcuno è una canzone prettamente autobiografica che riporta all’infelice infanzia di Jimi Hendrix. L’incipit del brano (“Eccomi qui in questa pancia, mi sto guardando attorno. Guardo fuori dalla mia finestra dell’ombelico E vedo un bel po’ di facce tirate. E mi chiedo se mi vogliono intorno”) potrebbe avere un significato, in quanto l’essere che guarda attraverso la finestra ombelicale si chiede se è davvero benvenuto, e se lo chiede prima di nascere. Alla fine, guarda caso si rivolge proprio al padre: “Così sto arrivando in questo mondo, papà, a dispetto dell’amore e dell’odio”. Un’ipotesi confermata dagli stessi Harry Shapiro e Caesar Gleebbek in “Una foschia rosso porpora” (Arcana) per cui secondo loro “Belly Button Window” è una canzone che “a parte un breve momento umoristico (quello dei cioccolatini alla mamma) è decisamente sarcastica nella sua descrizione di un’infanzia infelice in una famiglia senza pace”. Sono anche convinti che “in realtà il testo parla chiaro” ed è soltanto il punto di vista di un feto di tre mesi, per cui ai genitori mancano giusto i 200 giorni citati dalla canzone (“Per cui se non ci sono altre domande prendete una decisione, perché sarebbe ora di prendere o lasciare. Il dilemma dei vostri pensieri, prendere o lasciare. Vi restano duecento giorni soltanto”) prima di capire come e se accoglierlo. Resta una prospettiva singolare, la finestra tra la realtà e la terra degli spiriti, celebra la nascita, il dolore e la gioia, la maternità e la paternità, la famiglia e trova una parziale conferma in quello che diceva Hendrix ovvero che “le nostre canzoni sono come un diario personale”.
In prospettiva, i 200 giorni hanno solleticato, vista l’aura misteriosa attorno a Hendrix, anche l’idea di una premonizione, ma non c’è alcun fondamento perché, a conti fatti i numeri non tornano, visto che ne andrà molto prima. Qualcuno ha pensato che “Belly Button Window” fosse una canzone sulla reincarnazione, un tema ricorrente nel songwriting di Hendrix, qualcun altro ha pensato che il tema fosse l’aborto, ma in entrambi i casi non ci sono conferme o riferimenti sufficienti. Una delle interpretazioni più coerenti riguarda il fatto che la moglie di Mitch Mitchell fosse incinta. Un’ipotesi che ha riportato David V. Moskowitz in “The Words and Music of Jimi Hendrix” (Bloomsbury) convinto, anche grazie al working title provvisorio scritto a mano da Hendrix, che “Mr and Miss Carrige” fossero proprio Mitch e Lynn Mitchell che era in attesa della figlia Aysha. Ogni punto di vista, essendo intimo e personale resta valido, ma vale la pena di ascoltare lo scrittore T. C. Boyle quando definisce il blues “l’autentica sfumatura dell’anomia e della malinconia” e quella, come aveva ben capito Marino Grandi, in “Belly Button Window c’è tutta.
Il 24 agosto è l’ultima session in studio (di cui è stata mantenuta traccia) e Eddie Kramer, Billy Cox e Hendrix lavorano ancora a “Dolly Dagger”, ma, a conti fatti, l’ultima canzone incisa da Hendrix sembrerebbe essere proprio “Belly Button Window”, poi c’è ancora un oceano da superare. Ricordava Mitch Mitchell in Stone Free (Tarab): “Mi persi la festa d’inaugurazione dell’Electric Lady, e in effetti, Jimi uscì dallo studio dopo la festa e andò direttamente all’aeroporto a prendere l’aereo per l’Inghilterra, il che è molto triste perché significa che, a parte quei pochi demo che registrammo mentre lo studio era ancora in fase di allestimento, egli non ebbe mai modo di utilizzare lo studio per il quale aveva speso tanti soldi e tante energie. Ho sentito dire che, quando finalmente lo studio aprì, Jimi si era stufato di registrare e di lavorare in studio, ma si tratta di una balla. Avere uno studio tutto suo era per lui una specie di sogno diventato realtà”. La festa di inaugurazione degli Electric Lady è un po’ lo spartiacque simbolico del momento. Jimi Hendrix se ne va in fretta da quello che doveva essere il suo futuro e il 26 agosto se lo lascia in fretta alle spalle come scrive Patti Smith in “A Book of Days” (Bompiani): “Jimi Hendrix ha fondato i suoi Electric Studios in questo giorno del 1970. La sua speranza era quella di scrivere, registrare e collaborare con musicisti di tutto il mondo, facendo nascere da un caos sonoro collettivo un armonico linguaggio di pace. Tragicamente, Jimi morì a Londra tre settimane dopo, lasciando in eredità ai posteri la sua visione”.
Se la dimensione psichedelica, aperta a ogni possibilità, un’area ancora da esplorare, un alveare di idee è la sensazione quando si cade nella rete di Jimi Hendrix, il suo legame con il blues è rimasto saldo e costante fino alla fine. In un’intervista di un anno prima, nell’aprile 1969, Jimi Hendrix diceva: “Un musicista per essere un messaggero, deve somigliare a un bambino che non ha avuto troppi contatti con gli adulti, che non ha il cervello macchiato d’impronte altrui. È per questo che la mia musica è così dura da sostenere”. È una bella coincidenza per uno che cantava, proprio in “Belly Button Window”: “Suono un blues, mi guardo intorno. Certo che è buio qui. Sto guardando dalla mia finestra dell’ombelico, e ti giuro non ho visto altro che un bel po’ di facce tirate. Mi chiedo se mi vogliono intorno”. Alla fine, può anche essere letta come una constatazione del momento. Siamo qui, nell’indecisione, e il tempo è qualcosa di selvaggio che fatichiamo a capire. Hendrix ci provava incidendo spesso le intuizioni su cui contava di ritornare e anche in quelle session venne incisa una gran quantità di nastri che però sparirono nel nulla. Chissà dove sono finiti.
Marco Denti
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