Quest’anno il Lodi Blues Festival è tornato in scena nel suo abituale periodo dell’anno, in inverno, e nella sede storica, il Teatro alle Vigne. E’ stata dunque l’undicesima edizione della “Winter Session”, divisa nelle due serate 8 e 9 Febbraio. Per anni ci siamo ben “scaldati”, e per qualche appuntamento estivo anche “rinfrescati”, con artisti come Eric Bibb, Corey Harris, Jerry Portnoy, Duke Robillard, Roberto Ciotti, Fabio Treves, Francesco Piu e molti altri.
Il Teatro alle Vigne è uno dei migliori posti per ascoltare qualsiasi tipologia di musica, per la sua antica struttura, per comodi posti a sedere (Paolo Conte registrò una parte del suo bel disco dal vivo “Concerti” nel Maggio del 1985), e nel caso del Festival, per una qualità dell’impianto di amplificazione utilizzato. Un altro elemento importante è il “dopo Festival” voluto dall’organizzazione capeggiata sempre da Gianni Ruggiero, dove ci si trova tutti insieme, musicisti, addetti ai lavori e pubblico, nell’atrio del Teatro, a chiacchierare, fare autografi, foto e acquistare dischi. La condizione generale è dunque invitante e per la “ripartenza” la proposta si basava su diversi aspetti del blues. La prima serata è stata aperta dal duo italiano Superdownhome, Henry Sauda voce e chitarre e Beppe Facchetti batteria, proiettato verso grezze e dirette sonorità blues ispirate direttamente da Seasick Steve e implicitamente dal blues delle colline del Mississippi. In attesa del nuovo disco prodotto da Popa Chubby, il duo ha scaricato sul pubblico una via l’altro e ben mescolati, pezzi autografi e qualche cover, “Can’t Sweep Away”, “Twenty Four Days”, “I’m Broke”, “Shake Your Money Maker”, “Rollin And Tumblin”, “Stop Breaking Down Blues”. Nessuno dei due sovrasta l’altro, c’è un buon equilibrio e amalgama fra le chitarre, cigar box comprese, e la batteria. Si presentano bene anche per l’aspetto scenico, vestiti con abiti che ricordano qualche bluesman del passato che voleva essere elegante quando suonava il blues.
E’ lui sui manifesti del Festival, impegnato a suonare la chitarra elettrica. Si tratta di Matt Schofield che ha chiuso la prima serata. Inglese di nascita, vive in Florida ed è considerato uno dei migliori chitarristi in circolazione e questo gli è valso numerosi premi, è stato inserito nella British Blues Awards Hall Of Fame, e due aziende hanno utilizzato il suo nome per un amplificatore e un pedale per effetti. Di solito un chitarrista del suo stampo agisce nel classico trio, chitarra, basso e batteria. Si è presentato sì in trio, ma con una formula che a lui piace, al posto del basso, un organo, suonato da Johnny Henderson, apprezzabile per non farsi prendere dagli eccessi e sempre concentrato a fornire una buona spalla, mentre alla batteria c’era Even Jenkins, instancabile, dinamico, duttile, in una parola, esemplare.
Con un supporto del genere, Schofield ha messo in mostra tutta la sua abilità di chitarrista, basata principalmente su lunghi pezzi tutti sollecitati, dove il soggetto blues era evidente, ma portato spesso all’estremo con incendiari fraseggi, di bella fattura un lungo slow, dove si sono potute cogliere letture di Albert King e Albert Collins. Per il finale Matt invita sul palco il suo amico cantante Jay Stollman, la musica si fa più strutturata per un paio di classici ben condotti come “Black Cat Bone”. La seconda serata si è aperta con un duo dal quale, soprattutto la fronda più radicale del blues, si aspettava tanto, Angelo “Leadbelly” Rossi voce e chitarre, Roberto Luti solo chitarra elettrica. Entrambi continuano ad essere coerenti con la loro visione del blues, il primo vive di istintività, sa cogliere gli umori del momento, è in grado di esternare il blues anarcoide di qualche sconosciuto bluesman del profondo sud degli Stati Uniti, come di perdersi in ipnotici riff. Il secondo con il suo interminabile acume, padronanza della situazione ed eccelse qualità stilistiche sempre con quel penetrante uso dello slide, con chiunque suoni sa esaltarne i pregi e, se mai ci sono, ovviare ai difetti. Era Angelo a introdurre i pezzi accompagnandosi con chitarra e cantandoli con la solita personale interpretazione, mentre Roberto con delicatezza e intensità, lo sosteneva con frasi ritmiche e brevi assoli. Ci hanno portato in giro per le hills del Mississippi “Please Don’t Leave Me Baby” (Junior Kimbrough), “Going Down South” (R.L.Burnside), “Pushin My Luck” (Robert Belfour), ci hanno portato giù nella piana del delta “Country Blues” (Muddy Waters) e poi a Chicago “Alabama” J.B.Lenoir.
Di tutt’altra impronta è stata la parte finale del Festival con Animals and Friends, quartetto con due “originali” il batterista John Steel e il tastierista Mickey Gallagher (sostituì Price nel 1965) e due “friends”, il cantante/chitarrista Danny Handley e il bassista Roberto Ruiz. E’ stata una ovvia celebrazione della storica band di blues inglese di Eric Burdon e Alan Price, ma non c’era la sensazione della cover band, hanno ripassato parte del repertorio con un taglio più attuale e più vicino al rock/blues, eseguito con evidente professionalità e mestiere. Gli originali Animals furono influenzati fra gli altri da Jimmy Reed, ecco allora “Bright Lights, Big City”, da Ray Charles, ecco “Lonely Avenue”, da Sam Cooke, ecco “Bring It Home To Me”, e poi alcune pietre miliari del gruppo, “We’ ve Got To Get Out Of This Place”, “Don’t Bring Me Down” e “Don’t Let Me Be Misunderstood”. Il pubblico si è fatto coinvolgere volentieri, ha cantato, ha battuto le mani ed ha calorosamente applaudito. La connessione del Lodi Blues Festival è stata riavviata, dunque alla prossima volta.
Matteo Bossi e Silvano Brambilla
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