Leyla McCalla

Uscito qualche mese fa “Sun Without The Heat”, quinto album solista di Leyla McCalla e secondo su etichetta Anti ed è una ulteriore riprova della traiettoria personale tracciata ad ogni nuovo progetto. Dopo l’interessante esplorazione sonora di “Breaking The Thermometer”, scaturita in parte dall’archivio di Radio Haiti, questa volta si è ritrovata ai Dockside Studios di Maurice, Louisiana per alcuni giorni con la sua band abituale (Shawn Myers, Pete Olynciw, Nahum Zdybel), lasciando che i brani prendessero forma durante le session, grazie anche alla produttrice Maryam Qudus (anche a sintetizzatore e organo).

È un disco diverso da tutti gli altri che ha realizzato prima, a tratti più intimista e lieve, in altri momenti invece attraversato da zone d’ombra e temi più seri. Ci sono diversi interrogativi e forse un emergere ricorrente, benché sottotraccia, di rimandi ai cambiamenti, alla resistenza emotiva e alla capacità di sopravvivere alle situazioni che la vita ci pone davanti, i lutti, gli amori che svaniscono e quelli duraturi. E non stupirà che la voce di Leyla McCalla, sovente piena di malinconia, aderisca in toto a queste dieci canzoni (tutte autografe tranne una), forse anche perché il suo lavoro sui testi, pur ispirato, come scrive nelle note, ad autrici quali Octavia E. Butler, Alexis Pauline Gumbs o Susan Raffo, non si traduce in intellettualismo ma al contrario in una più diretta essenzialità.

Il ritmo sincopato di “Open The Road” apre l’ascolto e stabilisce, in un certo senso, le coordinate ampie di un disco che abbraccia tanto le sonorità afro-caraibiche, alcuni riferimenti al tropicalismo brasiliano (nel disco precedente aveva ripreso un brano di Caetano Veloso) o le poliritmie di tradizioni musicali dell’Africa occidentale. Senza dimenticare elementi folk americani filtrati attraverso la sua sensibilità. “Tree”, la storia di una trasformazione di una donna in albero, il cui andamento ricorda le maree, ora languido ora invece, nella seconda metà, acceleratao fino a divenire una inaspettata cavalcata elettrica e quasi psichedelica. “Sun Without The Heat”, per contro più delicata, trae spunto da un discorso di Frederick Douglass, “non si può avere la pioggia senza il tuono o l’oceano senza il rumore delle sue acque”.

Citiamo anche la vivace “Love We Had”, adattamento di un brano del chitarrista etiope Ali Mohammed Birra. A riprova, ancora una volta,  di come la sua musica riesca ad estendersi e a tenere insieme tradizioni in apparenza distanti.Nel finale “Give Yourself A Break”, rimanda, a quanto pare, a quel che era solito dirle suo fratello (scomparso qualche anno fa), una canzone folk che sembra pre-esistere, con bei passaggi di chitarra di Nahum Zdybel.  Mentre solo piano e violoncello animano “I Want To Believe”, un commiato quasi sacrale e pieno di speranza, “i want to believe in a world I cannot see”, per un album umanista e sfaccettato, un’altra rivelazione della personalità di Leyla McCalla.

Matteo Bossi

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