Sono trascorsi ormai tre decadi dalla scomparsa di Walter Williams meglio noto come Lefty Dizz, una figura originale nel panorama del Chicago Blues.  Dal punto di vista discografico ha contribuito a rinsaldarne la memoria la recente  riedizione da parte della JSP delle sue incisioni del 1991 con Johnny Big Moose Walker, recensite sul portale da Philippe Prétet. Per ricordarlo al meglio però, vi proponiamo l’articolo apparso sul n. 109 de Il Blues, in cui gli avevamo dedicato anche la copertina.

L’altra faccia del Chicago Blues

di Marino Grandi

“Oggi 29 settembre…” Questo potrebbe essere l’incipit ideale per l’ultima volta che ho visto Lefty Dizz. Assieme a mio figlio Davide lo stavamo aspettando, seduti nella hall dell’Euroresidence Hotel di Brescia di quel lontano 1990. Allorchè sbucò dall’ascensore ci avvicinammo per salutarlo e lui guardandoci esclamò: “Accidenti, (la traduzione italiana non rende l’efficacia dell’esclamazione inglese n.d.a.) com’è cresciuto tuo figlio! Lo ricordavo bambino e ora è più alto di te”. Oltre a rimanere sorpreso di come Lefty si rammentasse del nostro incontro all’esterno del Casino di Montreux nel luglio del 1981, non avrei mai pensato che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro. È vero che ce ne sarebbe stato un altro il mattino dopo con Dizz seduto al pianoforte e intento a ricavare sonorità ben diverse da quelle che la sera prima ci aveva proposto dal palco del festival di Nave. Parlammo nuovamente con lui, “Mi piace suonare in Italia, ma non sono mai riuscito a farlo con il mio gruppo, Shock Treatment, li ho chiamati così perché sono davvero tosti, anche se con Fernando (Jones) mi trovo benissimo. Sarei felicissimo di ritornarci, ma non come in Inghilterra o in altri paesi dove mi affiancano band locali. Niente da dire sui miei accompagnatori, ma mi piacerebbe che tu mi ascoltassi con la mia band, l’atmosfera è diversa”.

Ognuno di noi, credo, porta con sé il rammarico di aver fatto, o forse meglio, di non aver fatto o non essere riuscito a realizzare, alcune scelte. Se qualcuno di voi non possiede rimpianti, è meglio che non legga quello che segue, non fa per lui, e passi subito alla rubrica delle recensioni. Se invece riuscite ad accettarlo non come una biografia ma un ricordo, procedete pure nella lettura. Il mio rimpianto in questo caso? Sicuramente banalissimo. Quello di non essere stato in grado di riportare in Italia quest’uomo così diverso, eppure così speciale, con gli Shock Treatment, confidando erroneamente in quella prossima occasione che invece non ci sarebbe stata.

Un passo indietro

Milano, 14 dicembre 1979. L’aria sembrava ancora impregnata dall’odore dei lacrimogeni. Alcuni ingressi erano privi dei vetri. I muri anneriti e imbrattati da non si sa bene cosa. Si presentava così il Palalido, dopo i disordini scatenatisi due  giorni prima al concerto di David Bromberg. In verità, conservavamo qualche dubbio, avvalorato dalla presenza nutrita delle forze dell’ordine, che la presunta ed annunciata esibizione del Chicago Blues Festival si potesse tenere. Poi, l’andirivieni che si intravvedeva nella zona situata dietro il palco, ci rassicurò. Il concerto avrebbe avuto luogo. C’era una certa curiosità, anche tra gli appassionati, perché degli artisti che formavano il cast conoscevamo più che altro i nomi, in quanto i loro prodotti discografici ci pervenivano con il contagocce. Infatti, se di Odie Payne conoscevamo le prestazioni dietro i tamburi, fondamentalmente per le colAlaborazioni con Magic Sam e Junior Wells, di Johnny “Big Moose” Walker e del suo pianoforte ricordavamo l’Lp edito dalla Bluesway, “Ramblin’ Woman”, fuori catalogo e qualche antologia. Dei chitarristi Willie James Lyong e Jimmy Johnson ci erano noti il mezzo album per la MCM per i primo ed un altro mezzo Lp sempre per la MCM più un fresco lavoro per la Delmark per il secondo, ma per quanto riguardava Walter “Lefty Dizz” Williams non avevamo nulla, né da ascoltare, né quindi da ricordare. Eppure fu proprio lui che quella sera scacciò le streghe dal Palalido. Sembrava un dandy, con quell’elegante doppiopetto con tanto di gilet, ma la chitarra verde scrostata e il manico macchiato di sudore lasciavano intuire che da quello strumento sarebbe uscita una musica che niente aveva a che vedere con il suo abbigliamento. E in effetti le sue versioni stralunate, acide e distorte di “It Hurts Me Too” e “I’ll Play The Blues For You”, ci riconciliavano immediatamente con il blues più viscerale, immediato e genuino, scaturito dal ghetto del South Side di Chicago.

 

Dove tutto cominciò

Walter Williams, questo il suo vero nome, nacque ad Osceola, Arkansas il 29 aprile 1937, da James Arthur e Mary Frager, ma all’età di due anni è già a Chicago, città dove l’intero nucleo familiare si trasferì in cerca di lavoro. A cinque  anni, il padre, che nel Sud aveva imparato a suonare il pianoforte, lo fa sedere davanti alla tastiera e incomincia ad insegnargli la struttura degli accordi. “Ma a quell’età non ti interessa, dopo la scuola vorresti solo andare a giocare a basket o a baseball con gli altri bambini, ma lui ti dice – beh lo sai che ti conviene imparare a suonare il piano, perché non sai come ti guadagnerai da vivere un giorno -Ha avuto ragione”.

Ma con il passare del tempo, ciò che lo attirava finì per essere la chitarra, anche se il fatto di essere mancino gli procurava qualche problema cui però, grazie al carattere volitivo e indipendente, presto ovviò. “In realtà è stata una sfida, in quanto i vecchi musicisti i dicevano che non potevo suonare la chitarra, proprio perché ero mancino, a meno che non invertissi l’ordine delle corde. E io dicevo ma perché? Lei ha sei corde e io due mani, sono del segno del toro, quindi mai dire mai. Così ho cercato di imparare a suonarla senza nessuna modifica e lo sto ancora facendo. Allora avevo ventidue anni. Ricordo che la prima chitarra è stata un Silvertone, acquistata al banco dei pegni per cinquanta dollari, per l’epoca era parecchio. Prima me ne facevo prestare una acustica e andavo a suonare in bagno di notte. Lì si ottiene un ottimo sound. Si fanno delle prove, si abituano le orecchie al meglio e si procede”.

Nonostante avesse trascorso quattro anni nella Air Force e intrapreso studi economimca presso la Southern Illinois University, Lefty Dizz, Dizz il mancino, soprannome affibbiatogli a scuola perché con la sua voce stridula imitava la tromba di Dizzy Gillespie, “cantavo scat, e con questa voce alta e acuta, simile ad una tromba, hanno iniziato a chiamarmi Dizzy, da cui Dizz”; aveva continuato a suonare prevalentemente jazz e R&B, ma la frequentazione assidua dei locali di Chicago lo mise in condizione di ascoltare Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Elmore James, J.B. Lenoir. E a questo punto di dice, “beh diamine, io so suonare questa roba…ma il blues non è facile da suonare, perché il blues è un feeling. Devi crescerci nel blues.” Così comincia a presentarsi nei vari locali e a suonare nelle jam session che ogni sera concludono il concerto dell’artista in cartellone. “Una sera Howlin’ Wolf, ringhiando con la sua voce profonda, mi disse, – non sai suonare la mia musica, ragazzo, cosa ci fai qui?- Tornai a casa e mi ripresentai otto mesi più tardi. Oltre alle pacche sulle spalle mi disse – voglio che tu venga in tour con me-. Non ci andai, perché in quel periodo suonavo con Sonny Thompson, della King Records, e andai in tour con lui”.

Infatti, contattato verso la fine degli anni Ciquanta da Sonny Thompson, all’epoca rappresentante a Chicago dell’etichetta King di Cincinnati, viene ingaggiato per una tournée in cui deve accompagnare Lula Reed, Dee Clark e altri artisti della stessa scuderia. È da collocare in questo periodo, estate 1961, anche la sua prima apparizione in sala di registrazione, sia pure nelle vesti di chitarrista  del gruppo The Wallets. I due brani, “Roof Top” e “Bargain Basement”, entrambi strumentali, vennero pubblicati su Federal, una sussidiaria della King. Lefty rammenta anche l’incontro con Jimi Hendrix, attraverso il suo racconto assume il colore del suo io, “Suonavo al Budland di Seattle insieme a T-Bone Walker, Sonny Thompson e Lula Reed e Jimi, che aveva quattordici o quindici anni, stava imparando a suonare la chitarra, venne a stare da me per un paio di settimane. Era mancino anche lui, ma rovesciava le corde, cosa che io non faccio”.

Chiusa l’esperienza con la King, Dizz riprende ad esibirsi nel circuito dei club di Chicago, affinando sempre di più il suo stile, per cercare di renderlo maggiormente personale. Verso la metà degli anni Sessanta entra a far parte della band di Junior Wells, con cui rimarrà, seppur a fasi alterne, fino al 1970. Al suo fianco intraprenderà tour al di fuori degli Stati Uniti, tra cui quello in Africa nel 1967, sponsorizzato dal Dipartimento di Stato. A proposito di questo tour, iniziato in Canada, proseguito negli USA e in quindici paesi africani tra cui, Ghana, Togo, Sierra Leone, Mali, Senegal e Costa d’Avorio, Lefty ricorda, “Andammo in Africa nel ’67, prima che James Brown facesse la sua tournée e lasciatemi dire che suonare il blues in Africa non era roba da film di Tarzan”. Dizz nella seconda metà degli anni Sessanta è presente come chitarrista, oltre che nell’album “Coming At You” di Junior Wells, anche nelle registrazioni che vedono il pianista Piano C. Red nelle vesti di leader. Una curiosità di questo periodo riguarda l’errata attribuzione di alcune sue tracce dal vivo registrate al Florence’s Lounge di Chicago nel 1969, pubblicate nel lato A dell’Lp “Houserockin’ Boogie” (JSP 1049), assegnato per intero a Hound Dog Taylor. Tra i quattro brani che interpreta, spicca per l’incredibile modernità esecutiva lo slow “Ship On The Ocean”, in cui la sua chitarra tratteggia quelle sonorità semplici ma incisive di cui parrebbe oggi si sia perso il ricordo.

 

Spirito Libero

Come avete visto sinora, ma il prosieguo non sarà molto diverso, Lefty non ha quasi mai una propria band. E questo è un po’ il limite del personaggio, difficilmente sottopone gli altri, oltre che sé stesso, ad un regime comune di intenti. Dizz è uno spirito libero, impossibile da catturare o ingabbiare, difficile da gestire da altri ma anche spesso privo di autogestione. Comunque sia, i club e le jam sono la sua dimensione. “Era sempre in giro. Se non era il suo gig era sicuramente in quello di qualcun altro. Più che un bluesman era uno showman, amava suonare con una mano sola. Ma quando voleva fare blues lo faceva bene e in maniera estremamente personale” (Bruce Iglauer sul Chicago Sun Times nel 1993). Dopo aver inciso due brani come accompagnatore di Johnny Young, pubblicati nel doppio Lp “Chicago Blues” (Red Lightnin’ 0055), colonna sonora dell’omonimo documentario diretto da Harley Cockliss; Lefty viene contattato da Carl Jones della C.J. Records di Chicago. Carl lo aveva ascoltato assieme al fratello Woody al Theresa’s Lounge e sembra particolarmente interessato a registrarlo. Così lo porta in studio con Woody e gli dice, “vieni un po’ qua e vediamo cosa possiamo fare”. Nascono due pezzi, “If You Need Love” e “I’m Your Nitty Gritty Man” (CJ 656) attribuiti rispettivamente a Lefty Diaz & Walter Williams & The Blues Hounds il primo e Woody Williams & The Blues Hounds il secondo. Entrambi pubblicati solo su 45 giri. Nel 1972, Carl Jones, che mescolava i dischi con banane e ciabatte, lo richiama ad incidere al fianco del pianista Johnny “Big Moose” Walker. Questa volta le registrazioni, “Tend To Your Business” e “Things I Used To Do” (CJ 657) vedranno la luce come Johnny Big Moose Walker with Lefty Diaz & The Blues Hounds. Questa nuova esperienza, in realtà, nulla sposta del suo futuro prossimo, ma la sua presenza in “Things I Used To Do” mette in mostra, malgrado l’assenza di spazi solisti a lui riservati,, quanto le frasi spezzate della sua chitarra sappiano togliere il pezzo dalla solita riproposizione calligrafica. Il suo interesse principale, tuttavia, continua ad essere la parte concertistica.

“Nella comunità blues di Chicago, il lunedì, il famoso o famigerato Blue Monday, era il giorno in cui i musicisti si dedicavano a socializzare tra loro con amici e fan, il tutto un po’ al di fuori del concetto consueto del concerto / show serale. Era insomma il giorno dedicato a riaffermare la continuità del blues. Chiaramente non c’era nulla di ufficiale, ma così stava scritto, anche se nessuno sapeva bene dove. Se il punto focale per molto tempo fu il Theresa’s, all’incrocio tra la 48th e Indiana, quando Buddy Guy acquistò il Checkerboard Lounge, un bar al 423 Est della 43rd, ci una migrazione verso questo locale, anche se il Theresa’s rimase ancora il ritrovo per il Blue Monday. Dizz dice che suona per 65 dollari, ma Buddy dice che non li ha, ma può pagarlo con un drink e un piatto di fagioli al Blue Monday Night- non so quando verrò pagato ma è Ok- Ed entrambi ridono” (Don McLeese sul Chicago Sun Times 1983).

Va da sé a questo punto, che un tipo come Lefty fosse attivissimo nella prima metà degli anni Settanta, con esibizioni in club di Chicago, New Pepper’s Lounge, Florence’s (1971), Checkerboard Lounge, Mr. M’s (1972), Alice’s Revisited (1973), 99 Club, Sweet Queen Bee Lounge (1974). Nello stesso anno con la sua band, The Shock Treatment, il 12 settembre apre il concerto di Larry Coryell alla Northern University. Si ricorda anche la doppia apparizione, (1972 e 1974) all’Ann Arbor Blues & Jazz Festival.

Nonostante questa attività abbastanza frenetica, la terra gli brucia sotto i piedi. Desideroso di nuove esperienze, nel gennaio 1975, mentre è a New York in visita ad amici, decide di concludere la serata in un club in cui la musica è di casa. Ovviamente Dizz partecipa ad una jam e l’armonicista della band di turno lo invita ad incontrare Victoria Spivey. Proveniente dal Texas, la Spivey è stata una importante interprete del blues classico durante gli anni Venti, ruolo cui in fondo non abdicò mai, svariando abilmente, quando quest’ultimo declinò verso la fine di quel decennio, verso lidi più redditizi e in linea con le mode che i tempi imponevano, sino a dimostrarsi in grado di autogestirsi a livello manageriale. Sulla spinta dell’appassionato Len Kunstandt, che riesce a farla tornare sulle scene negli anni Cinquanta, nasce anche l’idea di una casa discografica, Spivey Records, che spesso e volentieri unisce vecchie glorie a giovani rampanti in una miscela di blues, onestamente non sempre riuscita.  L’incontro con Victoria va in  porto e lei dopo averlo ascoltato gli fa incidere tre pezzi, due di essi, “We’re Gonna Boogie” e “That’s All Right” appariranno in “Spivey Blues Showcase” (1017), mentre del terzo, malgrado sia presente solo come chitarrista e incluso in “The All Star Blues World: Victoria Spivey And Her Danny Boy”(1023), rimane sconosciuto il titolo. Ma Lefty, e ritorniamo sempre daccapo, non è uomo da studio di registrazione. Infatti, se la ride di tutti e si diverte un mondo esibendosi il 26 gennaio alla Brooklyn Academy Of Music con Louisiana Red, proseguendo dal 31 gennaio al 2 febbraio all’Old Reliable ancora con Red e dal 7 al 9 febbraio con Tom Pomposello al basso e Harry Rosenfield alla batteria. Ma del suo soggiorno nella Grande Mela, ciò che stupì i posteri, cioè noi tutti, fu l’oblio che ha ricoperto per ventidue anni la registrazione che aveva realizzato con Louisiana Red. Comprendiamo le difficoltà finanziarie cui andò incontro, compreso il fallimento e il passaggio di mano dei diritti, l’etichetta Blue Labor di Kent Cooper, ma rimane sempre il dubbio su come alcune opere, di qualità non certo paragonabile, abbiano invece visto la luce. Stiamo parlando del CD postumo “Walked All Night Long”, recensito nel n. 62, la testimonianza, unica nella sua carriera, di come l’egocentrico, anarchico Lefty Dizz abbia messo a disposizione con umiltà, ma senza essere dimesso o privo di creatività, la sua chitarra elettrica. I suoi passaggi essenziali diventano l’elemento essenziale per la creazione del tappeto sonoro indispensabile alla chitarra acustica e alla voce di Louisiana Red.

Gli anni a seguire vedranno la sua continua attività nel circuito dei club e paiono dimostrare che il fatto di non avere al suo attivo alcun Lp non lo affliggesse più di tanto, né rendesse le sue performance meno energetiche. Ecco perché quando lui e Big Moose Walker vengono contattati in occasione della tournée Chicago Blues Festival 1979, entrambi stanno suonando sul palco del Checkerboard Lounge a Chicago. “Vi andrebbe di fare un album? – Io e Moose ci conosciamo da tanti anni, dai tempi di Earl Hooker, tanto per intenderci.  Per cui dico loro – Ok lo faccio, però vorrei Moose alle tastiere – E così è stato. Siamo andati in tour in Europa e al termine, a Parigi, abbiamo registrato Somebody Stole My Christmas

In realtà, l’8 giugno 1979, l’etichetta francese Black & Blue, promoter dei tour europei del Chicago Blues Fesetival, fa incidere ai Productions Studio di Chicago “Lefty Dizz feat Big Moose Walker”, album che, pur essendo attribuito ai soli Lefty e Walker, vedeva la presenza  di Willie James Lyons, Robert “Big Mojo” Elem e Odie Payne Jr (all’appello manca il solo Jimmy Johnson, probabilmente legato contrattualmente ad un’altra etichetta), ovvero l’intera formazione del CBF di quell’anno e funzionò da apripista al tour autunnale. Ma l’opera risulta poco convincente, gli artisti sembrano impegnati in un compito in classe di calligrafia, quasi a non voler turbare in anticipo i sonni degli spettatori europei. Si stacca la sola “Cummins Prison Farm”, neppure le tre tracce inedite pubblicate nel 2002 nel CD “Shake For ME” (Blues Ref 453), in cui si riprendeva per intero l’Lp della Black & Blue, riescono, con l’eccezione della title track, a fugare il sapore del belletto che avvolge le registrazioni.

In attesa del tour oltreoceano, eccolo in pista con Hound Dog Taylor, nel cui ensemble sostituisce Brewer Phillips, prima di partecipare, l’8 settembre, a Greenville, Mississippi, al Delta Blues Festival, questa volta con gli Shock Treatment, formati per l’occasione da Ralph Lepetina all’organo, Queen Sylvia Embry al basso e dal fratello Woody Williams alla batteria. Dalla sua partecipazione verranno estratti due brani per l’Lp antologico “Mississippi Delta Blues Festival 1979”, “You Don’t Have To Go” cantato dalla Embry e “You Might Have Made Your Move Too Soon”, un tempo medio in cui i partner di Lefty coltivano abilmente la scansione adatta al ballo, lui col suo chitarrismo asciutto, fatto di frasi brevi, induce invece all’ascolto, catturando il pubblico con la sua classica doppia conclusione, incentrata sul finto finale, seguito da quello vero. Il successo della tournée europea de CBF, induce Didier Tricard, manager per il vecchio continente del gruppo e neoproduttore discografico con la sua etichetta Isabel, a riportare in studio, questa volta in Francia, alcuni componenti della band, per ricavarne Lp diversamente attribuiti. “Going Home Tomorrow” a Johnny “Big Moose” Walker, “Chicago Woman” a Willie James Lyons e il predetto “Somebody Stole My Christmas” a Lefty Dizz. Registrato il 22 dicembre 1979 (che il titolo abbia qualche riferimento alla realtà?), l’album è decisamente migliore di quello inciso sei mesi prima. Sarà stata la scelta dei brani, sommata ad una maggior convinzione in sé stesso e nei suoi partner, scaturita dalla compattezza sonora durante il tour, ma rimane il fatto che Lefty lascia intravvedere quella parte di sé spesso oscurata. Ne sono un esempio, l’autografo slow di apertura, quella “Bad Avenue” che finì per diventare il suo biglietto da visita, qui dominata dal suo chitarrismo asciutto, la rilettura di “It Hurts Me Too”, in cui la sua voce catramosa fa da introduzione al suo assolo tirato, conferendo al tutto un senso di rara efficacia. Riuscite anche le riproposizioni di “All Your Love” e “Anna Lee”, quest’ultima con tanto di slide a voce cavata con rabbia e la lenta canzone titolo, arricchita dal break chitarristico di Lyons. Ma poco o niente cambia per Dizz. Infatti, dopo l’affermazione europea, la sua vita continua tranquillamente tra un club e l’altro, senza casa discografica, anche per il suo essere poco malleabile nel soggiacere alle scelte dei produttori.

Comunque di quegli anni Settanta qualcosa è rimasto nei suoi ricordi, una jam session coi Rolling Stones per esempio. “Avevamo fatto alcuni set insieme all’estero e nl ’79 gli Stones arrivarono in città. Non sapevo avessero intenzione di venire. Io ero al Kingston Mines e facemmo una jam in piena regola, proprio come quando erano più giovani”.

 

Gli anni Ottanta

Il rapporto con gli Stones, estemporaneo e fondato sull’improvvisazione più spinta, riprende quando il 22 novembre 1981 gli Stones mettono in piedi un concerto jam con Muddy Waters al Checkerboard Lounge. L’occasione viene catturata prima in un bootleg (su Lp dapprima singolo poi doppio) e poi nel 2012 pubblicata ufficialmente in vari formati audio e video dalla Eagle Vision. E Lefty è lì che detta legge, con il suo stile alla chitarra scomposto e a tratti parossistico, nella lenta e intensa “Ugly Woman Blues”.

L’8 luglio 1981 a Montreux, dal palco della cittadina svizzera, sulle sponde del lago Lemano, sede di uno dei festival che a suo tempo scrisse pagine fondamentali nella storia della diffusione europea di musiche come jazz e blues, Lefty, completamente vestito di bianco, affiancato dai Teardrops di Magic Slim, rovescia sul pubblico attonito, la sua miscela di blues anarchico, affidando alla chitarra, al canto rugoso e all’istrionismo personale il compito di non concedere spazio alla routine. Peccato che il set, Magic Slime era l’headliner, abbia concluso la sua effervescenza imprevista quando Slim lo ricondusse ai più miti consigli del suo apprezzabilissimo West Side Chicago Blues, apparso però, in quel momento, un po’ ingessato.

L’impossibilità di trovare tracce discografiche di quegli anni si è protratta fino alla scorsa primavera, quando, navigando nel mondo virtuale, ho scoperto il lavoro di recupero dell’artista Lefty Dizz a cura del partner Jimmie Smith. Questi, infatti, ha provveduto a pubblicare due CD contenenti registrazioni dal vivo, realizzate a Chicago nel 1981/82. I titoli? Ovviamente, “Live In Chicago” e “Live At Kingston Mines Vol.1”. Finalmente, ecco il frutto di incisioni, si fa per dire, perché la qualità è abbastanza discutibile, almeno per i patiti dell’alta fedeltà, di Lefty Dizz & Shockk Treatment, provenienti dalle loro bollenti serate, sinora sconosciute ai più. Se nel primo ascoltiamo ciò che accadde il 6 novembre 1982 al Granada Theater e il 19 giugno dello stesso anno al The Sports Corner, possiamo afferrare il marchio di fabbrica, ancora oggi inimitabile, di Lefty. Una musica semplice, istintiva, con la ritmica sempre presente e mai ossessiva, con le chitarre (la sua e quella di Jimmie Smith) a sostenere il brano e con gli assolo di Dizz, mai logorroici ma intrinsecamente efficaci, anche quando scivolavano verso lo slide acido. In nessun altra versione chicagoana ho sentito sprigionarsi la stessa energia creativa che Dizz aveva introdotto in “Bring It On Home” o “Baby Please Don’t Go”, che aveva fatto suoi a tutti gli effetti attraverso un lavoro di appropriazione passato per la demolizione dello standard stantio, cui aveva fatto seguito la ricostruzione a propria immagine e somiglianza.

Nel secondo, risalente al 13 dicembre 1981 e al 23 gennaio 1982, il discorso non cambia, perché un boogie atipico come “Lefty’s Boogie”, con le chitarre impegnate in un lavoro ritmico che si ripeterà con lo stesso effetto catartico in “Trouble In Mind” e, diversamente svolto, nella scarna “Rock Me”, simbolo di originalità spontanea e quindi non pilotata da interessi di bottega. Ottimo anche il tempo medio di “Believe It”, per non parlare dell’incredibile versione di “Hideaway”, riletta con il taglio del “quasi  per gioco” con il grande lavoro di Smith alla ritmica e i cambi di ritmo che spiazzano l’ascoltatore e ne fanno episodio unico nella categoria delle cover. Ecco perché quello che dice con la consueta schiettezza ad Al Simmons, pubblicato poi sul Reader, ha i connotati della verità, “Non c’è pioggia, sangue, merda o inondazione che possa impedirmi di suonare il blues. Ne sono sicuro, come sono sicuro che il mio nome è Lefty Dizz”. Ancora più schietta l’opinione di Liam Lacey, cronista di Toronto, quando afferma, in occasione di un concerto alla Brunswick House che, “…chiunque è interessato al blues o lo è stato e desidera recuperare il gusto per questa musica, è avvisato, l’occasione è da non perdere”.

Qualche altro anno lo trascorre a suonare nei club e poi, è il 1987, lo rincontro al Chicago Blues Festival. Ma più che la partecipazione all’evento festivaliero, la dimensione di Lefty spicca in maniera incontrovertibilmente personale nell’apparizione di lunedi 1giugno al Cultural Center della Chicago Public Library. Quel pomeriggio a Magic Slim & The Teardrops con Lefty Dizz è affidato il compito di esibirsi in occasione del “riconoscimento dell’importanza storica del Theresa’s”. Tra i personaggi rimasti di coloro che avevano calcato con assiduità il suo palco, Magic Slim & Co, in diverse formazioni, c’era anche lui. Ebbene, del suo intervento, ricordo ancora oggi la “sua” versione di “Baby Please Don’t Go”, che ritengo quanto di meglio ci sia stato dato di ascoltare, vuoi per la chitarra anticipatrice di sonorità tipiche del blues/rock anni Novanta, vuoi per il passaggio finale con tanto di incursione medley nei territori di “Mannish Boy”. Ovviamente era necessario avere materiale da proporre a proprietari di locali, ma Dizz non ne aveva. “Lefty è qualcuno che avrebbe potuto essere grande, ed è un vero peccato che nessuno qui a Chicago l’abbia mai registrato”(Bob Koester).

I due Lp pubblicati alla fine degli anni Settanta erano già  fuori catalogo, ma l’idiosincrasia  insita in lui per gli studi di registrazione andava attenuata. Così decide di autoprodursi. È il 1988 quando pubblica “The Soul Of Lefty Dizz”, una cassetta, benchè realizzata in economia e con turnisti un tanto al chilo, fornisce di lui un’immagine più vicina alla realtà di quella contenuta nei due album ufficiali. Il suo eclettismo viene a galla, ad esempio, quando usa l’armonica in “Sure Has A Wonderful Time”, continua nella dimostrazione di come il funky possa calzargli a pennello in “Chips Flying Everywhere” ed essere invece eluso integralmente al momento dell’intensità di “Bad Avenue”.

È il 1989 quando John Stedman, che forse ha ascoltato quella cassetta, convince Dizz a tornare a incidere, questa volta ai Soto Studios di Chicago, all’838 di West Grand Avenue. Accompagnato dalla famiglia Bella al gran completo (Carey, Lurrie, Tyson e James), a cui si aggiunge, seppur sovrainciso, in due brani Jerry Soto alle tastiere. Lefty con “Ain’t It Nice To Be Loved”, compie un altro passo avanti verso il miglioramento dei suoi rapporti con gli studi di registrazione. Ovvio che la presenza dei Bell conferisca all’opera l’indispensabile background musicale, è altrettanto vero che disvela altri tratti del suo stile, come il canto indugiante, quasi di malavoglia, con cui insaporisce “I Feel Like Jumping”, per poi passare ad omaggiare l’amico Hound Dog Taylor con la selvaggia “Sadie” e lasciare il segno del suo chitarrismo fuori onda nella title track.

Il discreto esito commerciale, induce Stedman a ripresentare Dizz l’anno dopo, questa volta quale partner di Johnny “Big Moose” Walker in “Swear To Tell The Truth” (JSP 242) e la sua presenza non passa inosservata, ma meglio sarebbe dire inascoltat.

…e il cerchio si chiude

Lefty Dizz Fernando Jones foto Marino Grandi

In quello stesso anno Lefty ritorna in Italia, in occasione del Nave Blues Festival dal 1990, quale ospite di lusso nella band del cugino Fernando Jones e…il cerchio si chiude. La sua esibizione, come al solito, proprio come la vogliono coloro che lo conoscono (pochi in verità), un concentrato di energia e un darsi per intero alla musica. Il suo impeccabile doppiopetto grigio satinato diverrà qualcos’altro alla fine di uno show che le versioni di “Sadie” e “Bad Avenue” esemplificano al meglio. “Un monumento del Chicago Blues, realmente tosto in concerto e a cui i dischi non rendono giustizia (Angelo Morini, Il Blues n.33). In questa occasione gli chiesi se, suonando così spesso in club differenti e per un pubblico diverso, il suo concerto cambiasse. “No, il mio repertorio è lo stesso, a meno che non ci siano richieste particolari. Non programmo mai una scaletta precisa dei brani e la mia band lo sa, chiamo solo la tonalità del brano successivo”.

Finalmente il vento sembra soffiare in suo favore, soprattutto ora che l’Europa pare interessarsi a questo figlio dell’Arkansas. Infatti, eccolo nel 1991 in Gran Bretagna, per la terza edizione del Burnley Blues Festival, accompagnato dalla stessa band, implementata da Johnny Robinson alla chitarra, con cui aveva inciso il CD attribuito a Johnny “Big Moose” Walker. Stedman, che sembra aver puntato su di lui, cattura la sua esibizione e pur lasciando inediti otto brani, tra cui il cavallo di battaglia “Bad Avenue”, pubblica i rimanenti quattro nell’antologia “Chicago Blues: Burnley Blues Festival 1991” (JSP 247), tra cui spicca la lunga e ipnotica “Teardrops On My Pillow”, omaggio personale all’intera storia del Chicago Blues.

La malattia, cancro allo stomaco, si fece presentò nel 1992, ciononostante Dizz non rinunciò alla sua attività live, limitandosi a ridurla. Nel dicembre dello stesso anno, essendo le cure cui veniva sottoposto solo in parte coperte dall’assicurazione sanitaria, si tenne al Buddy Guy’s Legends un benefit per raccogliere fondi a suo favore, le offerte quella sera raggiunsero i seimila dollari. “Era raggiante”, ricorda JoAnne Larson che l’aveva organizzato. “Finalmente riceveva il riconoscimento che non aveva mai avuto prima. Indossava un completo bianco e quella notte era il vero Lefty Dizz. Il giorno dopo era tornato in ospedale. Quando gli diedi il denaro raccolto, volle assolutamente pagare le spese che avevo sostenuto”. Eppure, a dispetto di tutto e tutti, nella primavera del 1993 intraprese un nuovo tour in Gran Bretagna con Magic Slim. Al ritorno però, le sue condizioni peggiorarono, dovette ricoverarsi di nuovo e intensificare le terapie. A fine maggio di quell’anno ero a Chicago per il Festival e, leggendo in uno dei vari giornali free che era prevista la sua presenza in uno show serale, avevo convinto moglie e figlio a seguirmi per non perdere quell’occasione. Purtroppo, poco tempo prima, venni a sapere che il suo set era stato annullato. Non ci saremmo mai più rivisti. Il 7 settembre 1993, Lefty Dizz moriva presso il Veterans Administration Lakeside Hospital di Chicago. Con la sua scomparsa, il Chicago blues ha perso, ma quel che è peggio è che non l’ha ancora rimpiazzata, l’anima eversiva che permetteva al blues della Windy City di non cristallizzarsi nella ripetizione continua di stilemi sonori sicuramente di fascino ma anche, forse, di comodo, in cui si stava, senza accorgersi(?), infilando.

Per la cronaca, nel 2007, la Wolf austriaca ha pubblicato un CD, condiviso con Carlos Johnson, che raccoglie, probabilmente, le sue  ultime registrazioni, effettuate in Argentina nel 1992, accompagnato da una band locale. Niente di esaltante, anche se la normalità di quest’album, se paragonata agli altri prodotti in circolazione targati Chicago Blues, fa ancora la sua bella figura, anzi. “I suoni che otteneva così bene, come l’intera struttura del suo lavoro, erano in anticipo sul tempo che stava vivendo. Pur essendo profondamente legato alle radici del blues, possedeva anche quella diversità straordinaria che gli permetteva di suonare R&B e rock con grande semplicità. Quest’uomo era un oceano di emozioni. L’ho visto ipnotizzare e catturare l’interesse del pubblico come nessun altro”(Raplh Metcalf, Chicago Tribune, 12 settembre 1993)

[Voglio ringraziare Jimmie Smith per l’aiuto fornito alla stesura di questo articolo attraverso l’invio di ritagli di quotidiani e riviste, annunci di concerti…e per avermi fatto scoprire i due CD dal vivo, il cui ascolto, oltre a ridarmi le emozioni perdute di un tempo, mi ha confermato quanto il mondo del blues di Chicago abbia perso con la scomparsa di Lefty Dizz.]

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