Prendi due, paghi uno, e sembra proprio l’offerta dietro al duplice lavoro, “Spirits And Soul” dei coniugi Andersen, Kid Andersen all’anagrafe Cristopher Andersen e Lisa Leuschner. Lui, classe 1980, quanto mai noto nel giro del blues californiano, quantunque di origini norvegesi, ma in America da vent’anni. E se pare che questo la dica lunga sulla terra delle opportunità, in realtà è anche un pizzico di fortuna a cedergli il passo, e questo chitarrista,  incredibilmente appassionato della sua arte, probabilmente ha visto lontano intercettando il bisogno di fare musica in quel contesto fervido, ma nella sua molteplicità, forse anche dispersivo. Così il suo impegno, oltre a suonare per altri (con Charlie Musselwhite, come con Rick Estrin, per citarne alcuni) è stato quello di fondare gli studi Greaseland, a San José, e far suonare gli “altri” proprio come produttore, tramite d’incontro per un giro di musicisti che ne hanno creato la scena.

Vien da sé la collaborazione con la Little Village Foundation di Jim Pugh, di fatto un’organizzazione promotrice della stessa musica senza fini di lucro, lasciando perciò libertà agli artisti, per un’autonomia di diritti. In tutto questo, non è scontato lo spazio per un suo nuovo disco, nonostante tutte le possibilità di giocare in casa. Sua moglie, già abile cantante, gli tende la mano e la reciproca collaborazione diventa questo “Spirits & Soul”, album che, appunto, ne contiene due: “Spirits”, con le nove tracce di lui e “Soul”, con le tredici della sua “Little Baby”. Intorno, un’innumerevole lista di credits, per l’uno e per l’altra, nella duplice identità di un lavoro, che è un doppio un po’ anomalo: scelta più o meno condivisibile, ma trattasi pur sempre di licenza poetica, l’ascolto a rivelarcene le impressioni.

Allora, sfatiamo subito l’idea che possano essere due facce della stessa medaglia, perché gli “spiriti” di Andersen si allacciano piuttosto a un background più nutrito di blues, quelli delle cover di una vita, così come di personali tracce dal gusto inconfondibile. Si vedano, per le prime, una “Nobody’s Fault But Mine” così pazza nella sua versione da sembrare persino l’archetipo di “Riders On The Storm”; oppure, l’eccitante resa della beatlesiana “Day Tripper” come rubata ad Otis Redding, dopo un ascendente climax introduttivo. Gran gioco di fiati, ad assisterlo, ma quando per “Hey, Mr. Reaper” il compare è il vecchio Charlie (Musselwhite) le ance del “sassofono del Mississippi” prendono impareggiabilmente la scena. Sono solo alcuni esempi, che assieme alla suadente traccia d’apertura “The Civilized Life”, così come al potente R&B di “Give Me The Road”, adombrano talora al gusto la pulizia pop e manieristica di “Soul”, il disco di Lisa, Kid Andersen al suo fianco e una manciata di brani autografi o a quattro mani, come l’iniziale “In My Mind’s Eye” o “I Won’t That Happen To Me”: queste dall’incedere un po’ troppo dance, un po’ motown; egregie invece le rese forti della “Rock Bottom” di Elvin Bishop, come della fantastica ballata soul “Why Not Me” dell’amico John Nemeth: questa sola, intensa, basterebbe a ragion del titolo. Ma “If You Could See” è un altro esempio, la coppia al canto e un pezzo virato al country, come se non fosse già sufficiente la corposa scaletta, per un gustoso affresco “a conduzione familiare” che da tempo mancava per entrambi, insieme.

Matteo Fratti

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