Un agente, non così segreto, al servizio del blues
di Matteo Bossi
Il percorso di Christoffer Kid Andersen lo ha portato dalla nativa Norvegia alla California, dove si è affermato come un chitarrista di grande talento, suonando prima con Terry Hanck e poi con Charlie Musselwhite, col quale ha inciso album come “Delta Hardware” e “Live At Triple Door”. Negli ultimi quindici anni lo abbiamo visto accanto a Rick Estrin nei rinnovati Nightcats, dopo l’addio di Little Charlie Baty, in innumerevoli tour ed una serie di dischi su Alligator, l’ultimo dei quali, “The Hits Keep Coming” è uscito pochi mesi fa. Oltre a ciò, ha creato il suo studio Greaseland a San Jose, che è diventato in breve tempo uno dei più richiesti e apprezzati non solamente sulla West Coast. Grosso merito per questo success va ascritto al modo in cui Kid Andersen gestisce lo studio, al suo orecchio per il suono e al rispetto profondo per i musicisti con cui lavora. Un altro fattore è indubitabilmente l’atmosfera di condivisione e comunità che si respira a Greaseland, ce lo hanno confermato persone diverse come Alabama Mike o Rick Estrin. La lista di artisti che hanno registrato qui è quasi infinita, pensiamo a Finis Tasby, Frank Bey, Willie Walker, Curtis Salgado, Alabama Mike, Marcel Smith, Tommy Castro, Nick Moss…per non citarne che alcuni.
Kid Andersen è coinvolto fin dagli inizi nella Little Village Foundation, una organizzazione no-profit gestita da Jim Pugh che è riuscita creare un modello di etichetta anomalo, con al centro l’artista, al quale restano integralmente i diritti della loro musica, con la fondazione a coprire le spese di realizzazione e promozione dei dischi. La maggior parte dei quali è il risultato di registrazione/mixaggio /mastering al Greseland. Non fa eccezione a questo “Spirits-Soul”. E non poteva essere altrimenti visto che i titolari di questo doppio album sono proprio Kid Andersen e sua moglie Lisa Leuschner Andersen, a sua volta una valida cantante, appunto edito da Little Village. È notte in California quando ci troviamo a parlarne con lui via Zoom. Kid Andersen sta mixando un disco, “sto sempre lavorando” esordisce lui, ma è subito pronto a parlare e a raccontarsi.
Il tuo disco precedente “The Dreamer” risale a molti anni fa, sei stato così occupato a lavorare per i dischi degli alti che non ne hai praticamente realizzati di tuoi…
Sì, ho inciso un dico natalizio, ma in effetti quello non conta molto. Ho messo su il mio studio per poter fare i miei dischi quando ne avevo voglia ed è venuto fuori che quando ne avevo voglia vuol dire ogni sedici anni o qualcosa del genere (ride).
Ed è un doppio con tua moglie Lisa, è un modo per recuperare il tempo perduto?
Beh, sai l’anno prima che ci mettessimo insieme Lisa ha partecipato ad American Idol e poi ha firmato per un’etichetta. Ha inciso un paio di dischi pop probabilmente nello stesso periodo in cui io ho inciso i miei, attorno al 2006/07. Poi abbiamo cominciato ad incidere tantissimi dischi con chiunque qui e tutti mi dicevano, “quando farai il tuo disco?” Ed io dicevo sempre, “non ho proprio tempo per farlo”. Molto è cambiato da quando ero più giovane e bevevo…e per fare un disco solista devi avere la sensazione che quello che hai da dire sia la cosa più importante del mondo. E pensarlo è più facile quando sei giovane e ubriaco (ride). In un certo senso sono maturato e per diverso tempo ho avuto la sensazione che fosse più importante per me aiutare altri artisti. Specialmente persone come Willie Walker, John Blues Boyd o Marcel Smith. È stata dura avere la stessa motivazione per fare un mio disco e inoltre anche i dischi che ho fatto con altri artisti li sento miei. Ci sono canzoni di Willie Walker che mi fanno questo effetto anche se non ci ho nemmeno suonato, un buon esempio è un pezzo intitolato “Is That It?”, una canzone di Rick Estrin. È stata una mia idea, ho detto a Willie, “dovresti cantarla”. Ero il produttore, ma la chitarra la suonava Rusty Zinn. Non mi sentivo incompleto nel lavorare a musica di altri. Ma pian piano ho cominciato a scrivere canzoni e volevo davvero realizzare un album con Lisa al canto. Anzi avrei dovuto farlo prima. A un certo punto abbiamo iniziato a registrare un disco insieme ed ha finito per essere doppio…solo dopo ne ho parlato a Jim (Pugh ndt) perché all’inizio doveva uscire su un’altra etichetta.
Dunque non su Little Village?
Lavoro con la Little Village fin dall’inizio e adoro l’idea di aiutare altri musicisti, ma non volevo approfittare del nostro stesso sistema. Ma una volta finito il disco ho capito di non voler cambiare molto quel che faccio. Voglio continuare a suonare con Rick Estrin & The Nightcats, non voglio mettere insieme un gruppo e tenere concerti per conto mio…Un’etichetta canonica, all’epoca avevamo parlato con Gulf Coast Records, ha bisogno di qualcuno che vada là fuori e riesca a vendere CD e ne tragga un guadagno anche per loro; ma non era esattamente il mio piano. Dapprima abbiamo raggiunto un accordo con loro per recuperare i diritti…per questo ora sto lavorando a un disco di Jimmy Carpenter! (ride) Poi ne ho parlato con Jim e lui ha detto, “dovremmo pubblicarlo su Little Village” ed ha molto senso proprio perché non è una label standard ma una organizzazione no-profit. Non hanno bisogno che io venda CD, non ne ricavano profitto in ogni caso. Funziona perfettamente. E mi è venuta l’idea di un doppio CD con due copertine! Penso sia un modo per me di sabotare la mia carriera, confondere i recensori ed evitare di avere successo in modo da dover tenere concerti per conto mio.
Mi sembra un disco eclettico e personale al tempo stesso, con il contributo di molti musicisti vostri amici.
Sì, c’è molta musica che abbiamo fatto negli anni con musicisti differenti…quando se ne presentava l’occasione. Abbiamo avuto un paio di session specifiche per questo disco ma c’è anche molto altro materiale. Ci sembrava sensato fare così ma i credits alla fine sono diventati lunghissimi! Non è stato facile. C’erano alcune canzoni che avevo scritto io e avevamo parecchio belle cose per Lisa, lì è stato più difficile scegliere. Volevamo canzoni scritte da noi oppure che fossero scritte da persone che conosciamo come John Nemeth, Mighty Mike Schermer o il padre di Lisa…
O qualcuno come Elvin Bishop.
Oh si, Elvin è piuttosto famoso e altri hanno interpretato quella canzone. Una volta gli ho chiesto “come mai non suoni mai Rock Bottom? È una grande canzone”. E lui ha detto “oh era la sua canzone”, intendeva della sua ex moglie Jo Baker e poi ha aggiunto, “Lisa potrebbe fare un gran lavoro con quella canzone”. “Ecco tutto quello che mi serve”, ho pensato.
Ci sono anche un paio di pezzi di Stevie Wonder.
Si, “Free” è una canzone che io e Lisa suoniamo da un po’, ha un suono molto anni Ottanta…è un pezzo che mi piace ed ho pensato che avremmo potuto farlo ispirandoci a “Move On Up” di Curtis Mayfield. L’idea era quella. Il mio gusto musicale si è ampliato da quando sto con Lisa, prima non ascoltavano nulla di posteriore al 1972 ora arrivo perfino al 1979…diciamo qualunque cosa prima che nascessi. E sono nato nel 1980.
Come sei diventato un cantate così convincente?
Non canto poi così spesso, ma ti dirò, una cosa che mi ha reso un cantante migliore è l’aver prodotto altri cantanti. Certo ho lavorato con grandissimi cantanti, gente come Willie Walker o Frank Bey, ma per me è stato formativo produrre musicisti che non si considerano grandi cantanti, ci sono chitarristi che cantano nella propria band perché qualcuno deve pur farlo…cerco di farli cantare al meglio e se voglio che cantino qualcosa spesso devo cantarglielo a mia volta. Devo essere un cantante migliore e più consapevole di cosa finisca nel cantato. C’è chi ha una qualità innata, naturale come Willie Walker, John Nemeth, Mike Ledbetter o Lisa…riescono a guardare qualcuno negli occhi e cantare una canzone. Io dovrei essere molto ubriaco per riuscirci! (ride), sarei a disagio altrimenti. Non ho quella qualità. Posso farcela ma mi sento meglio con un altro cantante…ho tenuto concerti in cui ho cantato sempre, ma non mi piace doverlo fare. Preferisco essere quello che viene fuori e poi se ne torna al suo posto, ho anche io un ego, come tutti, ma non in questo senso. Preferisco che qualcun altro si prenda la scena prima.
Com’è diventata quello che è Greaseland? Tutto quelli che ce ne hanno parlato, a cominciare da Rick Estrin, sottolineano la gioia di essere lì ogni volta.
È quello che ho sempre voluto, ma per essere onesto, ho smesso di avere fare un piano o di pormi degli obiettivi molto tempo fa, perché…non è divertente. Quando ero più giovane avevo qualche obiettivo del tipo “avere quella chitarra” o “fare quest’altra cosa”, ma poi succede qualcosa nella tua vita che lo rende impossibile e ti deprimi. Così ho smesso. Ho superato tutti gli obiettivi che non mi ero posto! Ad un certo punto finito il liceo, l’alternativa era proseguire gli studi, college o cose simili o trovare un lavoro…non ero sicuro che avrei potuto farcela come musicista, forse potevo trovare un lavoro e suonare alle jam o nei weekend. Non sapevo. Quando mi sono trasferito a Oslo, tutti erano chitarristi jazz davvero bravi, ne ero intimidito. Non pensavo di farcela, erano tutti più bravi…e poi non sapevo leggere la musica molto bene. Solo un paio di anni dopo ho capito “hey sono in grado di fare cose cui gli altri non pensano nemmeno”, mi ci è voluto un po’. Per un attimo a diciotto o diciannove anni ho abbassato le mie aspettative…e poi mi sono detto sono grato comunque andranno le cose. Quando ho messo in piedi lo studio volevo solo creare un mondo, un ambiente in cui mi piacesse stare, in cui fosse divertente e potessi creare musica. E poi non voglio pormi dei limiti da solo.
Questo è un elemento importante.
Sì, una volta avevo un assistente di studio e qualcuno gli chiese delle cuffie e lui disse “no non ne abbiamo”. Lo presi da parte e gli dissi, “hey qui non diciamo mai così”. Non puoi dire che non possiamo fare qualcosa…Una volta qui abbiamo avuto una big band di ventuno elementi. Aspetta, ma avevano tutti le cuffie? No, impossibile, forse solo il direttore e il batterista e c’era un cantante. Siamo arrivati a un punto che vivere qui h24 è molto conveniente. Si aprono molte possibilità con le moderne tecnologie e le registrazioni in digitale che prima non erano pensabili. Non mi pongo limiti. Ho registrato canzoni con sezioni d’archi, orchestre…Personalmente con alcuni degli artisti con cui ho lavorato, ho registrato negli studi più famosi come il Record Plant o il Capitol Records a Los Angeles, ottimi studi, ma le persone che producevano non avevano visione. E avere una visione è l’unica cosa che conta. Se ne hai una puoi far succedere le cose, a prescindere dalle circostanze. Altrimenti tutta l’attrezzatura e la tecnologia del mondo saranno inutili. Poi, certo, la sfida è farle prendere vita.
Penso che si percepisca all’ascolto di un disco.
Ti ringrazio. Funziona così, talvolta ci riesci subito, altre invece ci vuole tempo…Sai uno dei miei musicisti preferiti è Mike Rinta, il trombonista, se ho il budget chiedo a Mike di curare gli arrangiamenti dei fiati. Una volta gli ho chiesto, “come lavori sull’arrangiamento? Qual è il tuo procedimento?” E lui mi ha dato una risposta perfetta. “Lascio che sia la musica a dirmi cosa fare”. Ed è così, se sei aperto la musica ti parla. Il mio modo di lavorare non è molto strutturato, disciplinato…devo essere un po’ ispirato per lavorare a qualcosa. Di solito se i musicisti sono qui l’ispirazione arriva naturalmente. Al momento ci sono una mezza dozzina di album che devo finire di mixare. Alcuni devono essere finiti prima di altri, soprattutto quelli per cui sono già stato pagato! Per quanto possibile cerco di non pensare allo studio come un lavoro, non ho mai voluto avere un vero lavoro! Ecco un’altra cosa. Una volta un mio assistente si è rivolto a qualcuno chiamandolo “mio cliente”. E io gli ho subito detto, “Un cliente? E cosa sarei io, un fottuto avvocato?” (ride). Non ho clienti bensì artisti. Ogni fase del procedimento è arte.
Vivi in America da oltre vent’anni. In questo periodo il “music business” è cambiato parecchio.
Quando sono arrivato io nel music business è praticamente defunto! Purtroppo, è vero…le vendite del formato fisico sono crollate agli inizi degli anni 2000. Non conosco i numeri o quanto vendono di preciso gli artisti, ma ricordo che, quando ho fatto il mio primo CD, ne ho vendute quattro o cinquemila copie. Solo pochi anni dopo non sono sicuro che qualcuno come Elvin Bishop venda cinquemila copie. Sarebbero numeri da record. Credo che gli artisti blues che riescono a vendere più di diecimila copie li si possa contare sulle dita di una mano. Ed è folle. Eppure, è il momento in cui mi sono messo a produrre dischi…il che può apparire stupido, ma il fatto è che un musicista vorrà sempre realizzare un disco. I musicisti vogliono lasciare un proprio segno, è la loro arte. Ed il fatto che io qui facessi il lavoro di quattro o cinque persone riduceva di molto i costi. Non voglio che qualcuno paghi per la realizzazione di un album più di quanto possa realisticamente ricavarne. C’è gente là fuori che chiede 50000 dollari per incidere un disco, soldi che l’artista non riuscirà mai a recuperare. E questo per me è un problema. Non mi sentirei a posto a fare qualcosa del genere. Soprattutto se è un musicista che lavora. Per questo ho un sacco di lavoro, anzi devo addirittura rifiutarne.
Hai suonato molto spesso con armonicisti, è qualcosa che hai dovuto imparare?
Quando vivevo in Norvegia alcuni dei miei amici erano armonicisti e il chitarrista da cui ho imparato in precedenza suonava in una band guidata da un armonicista, perciò ne sapevo di più su questo rispetto a suonare coi fiati. Poi certo con Charlie (Musselwhite), essendo un armonicista particolare, alcune cose funzionavano ed altre meno, ma avevo una certa familiarità con il suo stile già prima. Ho imparato a suonare la batteria per poter dire al batterista come suonare ed ho imparato a suonare il basso perché nessuno lo suonava come piaceva a me. Questa è stata la mia motivazione per diverse cose, incluso diventare un ingegnere del suono, perché ne avevo abbastanza di avere qualcuno tra i piedi tra me e quel che volevo fare! Specialmente da quando ho capito che conteggiano le ore, lavorano lentamente così possono farsi pagare di più…a quel punto ho deciso che dovevo fare da me. Quando ho cominciato non credevo di farcela, sai i computer, l’audio digitale e tutte queste cose…Ora invece quelli di una certa età, la maggior parte almeno, ti vedono fare qualunque cosa ad un computer e pensano tu sia un mago del computer! Una volta durante la pandemia mi hanno chiamato perché stavano cercando di organizzare una intervista con Elvin Bishop e Charlie Musselwhite via Zoom…tutti sono venuti da me pensando che io lo sapessi, ma in realtà avevo usato Zoom forse due volte. Comunque alla fine ci sono riusciti anche da soli, è stato forte.
Ho letto che hai visto Little Charlie & The Nightcats in Norvegia a fine anni Novanta e poi circa dieci anni dopo in pratica eri nella band.
Sì, dieci anni dopo! È buffo che sia successo. Mi sono trasferito a Oslo nel 1998, dopo aver finito il liceo, vengo da un piccolo paese, ho trovato lavoro in un negozio di video e suonavo musica quando riuscivo…Frequentavo l’Oslo blues club, era una sorta di Blues Society, ogni martedì c’era un concerto e il primo cui sono andato è stato Little Charlie & The Nightcats. Ricordo di aver pensato, “questo è il tipo di band in cui mi piacerebbe suonare, sarebbe forte suonare con Rick, ma ovviamente non succederà”. Poi circa un anno prima che mi unissi a loro, io e Rick siamo diventati amici. Vivevo a Sacramento all’epoca, ero sposato con una donna e per circa un anno mi ero trasferito lì, non c’era molto da fare a Sacramento e dato che conoscevo Rick cominciammo a passare tempo insieme. Lui stava cercando di fare un CD solista ed io avevo iniziato a mettere insieme uno studio nella casa in cui vivevo. Lasciai Musselwhite per cominciare a suonare con John Nemeth, ma non durò molto, diciamo che non avevamo una buona influenza reciproca all’epoca. Così all’inizio del 2008 John mi licenziò. Ricordo che chiamai Rick, per parlare di altro, lui mi disse che Little Charlie se ne era andato e mi chiese, “vuoi metter su una band?” “Certo che sì”, gli dissi subito.
Allora è così che è andata.
Sì, il tempo passa più lentamente quando sei giovane…ma è folle pensare che li ho visti nel 1998 e nel 2008 ero nel gruppo. Dieci anni non sono pochi. I primi anni che vivevo in America non avevo molto successo. Suonavo con Terry Hanck…ma è stato solo quando ho iniziato a suonare con Musselwhite che sembrava stessi davvero combinando qualcosa di buono. Ho sempre voluto venire in America. Quando ho lasciato la Norvegia, Vidar Busk, che era come una rockstar, eravamo diventati amici e lo siamo ancora, lui ha vissuto in Florida per quattro o cinque anni, suonando anche con i Rock Bottom, beh Vidar mi disse, “amico, quando sarai lì, indipendentemente da quel che succede, restaci, ci serve qualcuno laggiù”. Ed è una cosa che mi è rimasta in testa. Non potevo tornare indietro, sarebbe stato come ammettere la sconfitta. È un po’ lo stesso di quando ho lasciato Musselwhite, è stata una cattiva decisione…e lui qualche tempo dopo mi chiese se ci avessi ripensato. Ma fu dopo che Rick mi aveva chiesto di mettere su un gruppo insieme, perciò dissi a Charlie, “ti sono grato per avermelo chiesto ma sento di dover andare avanti e vedere come va a finire questa cosa con Rick.”. Ed ora suono di nuovo con Charlie di tanto in tanto.
Tornando alla tua attività come produttore, è bello che abbiate potuto far incidere dischi ad artisti come Willie Walker, John Boyd o Marcel Smith che altrimenti, forse,non avrebbero avuto questa possibilità.
Jim Pugh lo ha reso possibile tramite la Little Village Foundation. Avevo un’idea simile, di fare qualcosa con artisti coi quali stavo lavorando come Finis Tasby…avendo lo studio ero in una posizione vantaggiosa quindi con Aki Kumare abbiamo cominciato a parlare di una organizzazione non-profit prima di sapere bene cosa fosse. Allo stesso tempo Jim aveva avuto l’idea della Little Village. Conoscevo Jim, ma non benissimo, dai tempi in suonava con Cray e inoltre era amico di Terry Hanck, ma per qualche ragione non si ricordava mai di me, ogni volta che ci vedevamo sembrava la prima! Poi abbiamo lavorato insieme ad un album di Charlie Owen qui allo studio e ci siamo conosciuti meglio, credo abbiamo perfino avuto una discussione su qualcosa. Mi parlò della sua idea per la Little Village, non suonava più con Cray e cercava qualcosa da fare. Io gli parlai del disco di Willie Walker che stavamo per registrare, chiedendogli di venire a suonare. Disse di sì. E quel disco divenne il primo della Little Village. Con Aki e le persone con cui stavamo parlando organizzammo un meeting con Jim per capire se potessimo unire le forze. Venne fuori che non erano molto interessati a quel che aveva in mente Jim, mentre io lo ero. Così smisi di parlare con loro, avevo capito che Jim era la persona giusta per far diventare realtà quell’idea. Ecco com’è iniziato. Il primo anno abbiamo pubblicato Willie Walker e Ron Thompson, il secondo John Blues Boyd e diversi altri. Da allora siamo molto legati con Jim e ora si ricorda di me! È stata davvero un gran cosa.
Avete lavorato anche con artisti più giovani come D.K. Harrell.
Sì, col tempo ci siamo allargati agli artisti giovani, sono molto importanti perché ovviamente sono il futuro. Ed ora ce ne sono diversi. Non pensavo lo avrei visto succedere durante la mia vita. Non ricordo chi sia stato il tramite con D.K. ma quando Jim mi ha chiesto cosa ne pensassi di questo D.K. Harrell, gli dissi che mi piaceva. Lo avevo già visto su Facebook. È davvero bravo ed è come fosse mio figlio. Sai si dice che tuo padre sia la sola persona che vuole che tu faccia meglio di lui ed è così che mi sento riguardo a D.K., devo essere suo padre, non importa quel che dica il DNA! (ride) Spero di fare altri dischi con lui, mi piace per il talento e la persona, ha davvero buon cuore.
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