Goin’ Down Rhône River
di Philippe Prétet
23 giugno 2023. In Francia nella zona sud di Lione una sottile striscia di terra segna la confluenza tra il Rodano e la Saona, i due fiumi che attraversano l’antica capitale della Gallia. Il Musée des Confluences costruito alla loro intersezione, ha ideato una mostra temporanea affascinante sul tema “Noi, i fiumi” (Nous, les fleuves). In questo contesto è stato invitato, in qualità di musicista, Jontavious Willis, per suonare a filo d’acqua di un fiume immaginario…Tutto un programma! Benché fosse appena arrivato direttamente da Atlanta, Georgia, e abbia dovuto tribolare per recuperare i bagagli, Jontavious “Quon” Willis ha accettato subito la nostra intervista per Il Blues. L’uomo è tranquillo, affabile e di una gentilezza senza pari, tipica degli abitanti del Sud. A ventisette anni, questo nativo della Georgia, nato infatti a Greenville nel 1996, è un vero appassionato e studioso della storia del blues. Parla dei musicisti della Georgia con amore e rispetto, quali Blind Willie McTell, Barbecue Bob, Kokomo Arnold o Ma Rainey, lui che vorrebbe venisse valorizzato il patrimonio culturale della Georgia rurale in cui vive. Jontavious è orgoglioso del legame con le sue radici rurali e le rivendica con semplicità. In maniera inaspettata, ci mostra dal suo telefono cellulare, con un gran sorriso malizioso, le foto dei maiali che alleva nella sua fattoria. Artista autodidatta, adepto della chitarra acustica che mette in risalto brani risalenti al periodo dagli anni Venti ai Cinquanta, ai quali è particolarmente affezionato. Crea lui stesso linee melodiche che reinterpreta con un picking di cui ha una perfetta padronanza, andando riscoprire le radici del brano. Ma è anche autore, compositore e interprete, divenuto tra i più degni rappresentanti della nuova generazione di musicisti che si iscrive nella tradizione di Piedmont blues, gospel, country blues, Delta blues. Dopo l’intervista Jontavious ci spiega come il blues sia uno dei suoi argomenti preferiti perché mette in evidenza gli afroamericani di differenti regioni, che cantano di temi disparati con linguaggi, stili e influenze molteplici. E una grossa parte di tutto questo corrisponde alla storia della sua famiglia e a quella di molte altre famiglie afroamericane, insiste lui. Ritiene che il blues, col suo linguaggio vernacolare, contenga in sé la dicotomia tra la musica sacre e quella secolare, la grande migrazione, il movimento per i diritti civili, la mezzadria e molto altro. Jontavious Willis impressiona per la maturità che emerge della sua personalità e dal suo vissuto, segno di profondità d’animo e intelligenza emotiva. Willis si è lasciato andare volentieri riguardo al suo prossimo e terzo album dopo i notevoli “Blues Metamorphosis” (2016) e “Spectacular Class” (2019). The real deal! Così lo hanno soprannominato i suoi ammiratori, i media e i suoi amici musicisti oltre Atlantico. Una garanzia? Lo sottoscriviamo senza dubbio, data l’evidenza.
Intervista con Jontavious Willis
Taj Mahal ti ha definito wonderboy, wunderkind. Questo ha cambiato qualcosa per te?
Penso che Taj Mahal mi abbia come fatto passare da un palco piccolo ad uno più grande e abbia finito per diventare una sorta di mentore, per gli aspetti storici del blues. Non necessariamente per suonarlo, nessuno o quasi mi ha davvero insegnato a suonare, ho imparato soprattutto da solo. Ma da Taj ho appreso molto sulla storia ed ha per così dire unito i puntini…Lui e mia nonna sono nati lo stesso anno, perciò, lo vedo come un grande vecchio, anche se mio nonno ha qualche anno più di lui. Penso abbia cambiato il mio modo di vedere l’industria musicale, il modo di vedere la musica e quello di interagire con i miei contemporanei, semplicemente sulla base della carriera che ha avuto Taj e continua ad avere e sulle sue informazioni. Ci siamo conosciuti otto anni fa, avevo diciotto o diciannove anni, ero all’inizio della mia carriera. Lui mi ha presentato Keb’ Mo’.
Hai una grande cultura musicale ed emergono molti riferimenti nei tuoi due dischi. Suonano molto bene, musicalmente parlando, sono “soulful” e ricchi di groove, sia che usi fingerpicking, flatpicking o slide, tutti elementi che sembrano avere un ruolo importante per te.
Dipende da quello che decido di suonare. Quelli suono i suoni che mi piacciono e di cui vado in cerca. Mi è sempre piaciuto il suono del fingerpicking, non sono veramente un gra flatpicker, so farlo un po’ ma non così bene come il fingerpicking. Me la cavo anche alla slide, all’armonica, un po’ anche al banjo…questi sono le sonorità che amo e venendo dalla campagna in Georgia, sono simili a quelli che ascolti in chiesa o sentendo parlare la gente. Ogni aspetto della vita viene fuori con questi suoni.
Hai scritto tutti i testi del tuo secondo album, “Spectacular Class”,, un mix di Delta blues, Country blues, ragtime, Piedmont e Texas blues, con un tocco di gospel. Questo vuol dire che sei particolarmente interessato alle radici del blues tradizionale e intendi portarle aventi nelle tue canzoni?
Di sicuro ci tengo ad avere elementi di gospel e blues tradizionale in ogni canzone…alcune sono un po’ diverse perchè ho anche altre influenze, ma per la maggior parte vengono dalla musica tradizionale. Ti faccio vedere, (prende il telefono ndt), se premo shuffle ecco, Big Joe Williams, Amos Milburn, T-Bone…Quando parli di blues ce ne sono moltissime tipologie, vocal blues, ragtime blues, jug band blues, classic female bues, solo blues, blues per due chitarra…sono davvero molte. Puoi sentirci dentro sonorità molto diverse. Anche qualcuno come Joe Pullum che quando canta “Black Gal” suona molto R&B. In definitiva, sì cerco di avere sempre le radici, il southern feeling, a prescindere che suoni più moderno o antico. Quel che cerco è il “southern feeling”.
Sei un giovane entusiasta che suona blues acustico in un momento in cui diversi givoani afroamericani preferiscono la chitarra elettrica e la spettacolarità. Come mai non hai scelto la via più semplice?
Oh beh…non parlerei di via più semplice! Ho solo scoperto quello in cui sono bravo. Suono anche in elettrico talvolta, ma quando lo faccio non sono certo uno showman, non nel senso di far vedere cose tecniche…Conosco molte canzoni, conosco i testi, ho un mio stile di fingerpicking non necessariamente come Guitar Slim! Mi piace soprattutto il blues dagli Venti ai Cinquanta, è il periodo più originale. Mi piacciono i bluesman solitari, perchè è più facile suonare da solo, capisci? Quando cominici a suonare con altri le cose si complicano, devi essere un leader. Abitando in campagna ho iniziato a suonare con un amico batterista, ma poi ci siamo separate. Qualche volta suono con un altro chitarrista e appunto a volte con l’elettrica, ma il mio cuore appartiene al country blues.
Cose ci dici del tuo amico Andrew Alli, avete un approccio simile alla musica.
Andrew è un mio buon amico. Ascolta, a sua volta, molta vecchia musica. Ha gran gusto con l’armonica, è un buon cantante e se la cava bene anche alla chitarra. Mi ha insegnato alcune cose di Big Bill Broonzy. Voglio bene a Andrew.
Sei al lavoro su un nuovo disco?
Si, sono stato in studio e ho registrato alcune dozzine di canzoni da quando ho pubblicato “Spectacular Class”, ora sto cercando il canale giusto per farle uscire. Voglio che sia più rappresentativo di me. Quando ho inciso “Spectacular Class” molti degli altri musicisti non li conoscevo. Ora è diverso rispetto al 2019, li conosco meglio, sono persone con cui ho suonato. Conosco il pianista, il bassista…Sai, all’epoca non avevo un’idea precisa del suono che volevo per ogni canzone, come sarebbe stato l’arrangiamento. Ci vuole tempo. Stasera ci sarà un nuovo pubblico e per loro l’album suona nuovo, ma tu che mi ha seguito sai che è di quattro anni fa. Il mondo del blues è piccolo e voglio fare in modo che ci sia spazio tra un disco e l’altro in modo che si possa vedere la mia crescita. Non voglio pubblicare un disco all’anno, specialmente se sono spesso in tour. Quest’anno ho registrato e il prossimo pubblicherò buone canzoni che mostrano una scrittura migliore, una musicista migliore, una capacità organizzativa migliore.
Cosa faresti se non facessi il musicista blues?
Di sicuro sarei triste! Penso che ne starei parlando se non lo suonassi. Ho tenuto alcuni workshop, mi piace molto la storia. Quando avevo dodici anni ho iniziato ad ascoltare il blues e ad apprezzare la storia. Credo che ci sia stato un periodo della storia americana in cui gli afroamericani hanno realizzato alcune delle cose più belle di sempre e hanno davvero rivoluzionato il modo in cui la gente vede la musica. Insegno il blues della Georgia, perché non si parla abbastanza di Blind Willie McTell, Kokomo Arnold, Ma Rainey…Essendo georgian. Molta più gente parla del Mississippi, ma ci sono molti grandi musicisti della Georgia. Quindi farei l’insegnate oppure sarei nella fattoria ad alleviare maiali, perché mi piace…ti mostro qualche foto, ne ho diversi. Mi piace l’agricoltura, mio nonno era un contadino. Alla fine, è tutto connesso al blues.
Stamattina ho ascoltato la tua canzone “The World Is In A Tangle”. In esso ti riferisci a qualcosa che è accaduto negli USA che ti ha fatto venir voglia di trasferiti in un altro paese?
Solo andarmene via, non per forza via dagli USA. L’ho scritta dopo che c’era stata una sparatoria in una scuola… ecco la genesi del brano. Esprimevo la voglia di allontanarmi dagli esseri umani, dai guai, in un altro posto. Come andare su Marte o qualcosa del genere. Il titolo viene da un brano di Roosevelt Sykes, una sua canzone del 1929, “All My Money’s Gone” in cui c’è un verso che fa, “…the world is in a tangle, everybody i singing this song”. Poi anche Jimmy Rogers e altri hanno usato questo verso.
Si ringrazia in particolare M. Philippe Krumm, Direttore del Musée des Confluences di Lione (Rhône).
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