E’ una data che si aggiunge inaspettata a quella del Pistoia Blues di quest’anno, quella di Jonny Lang al Carroponte di Sesto. Ma se da tempo il festival toscano ha perso quella connotazione più legata alla musica afroamericana là mescolatasi al panorama internazionale (garantendo pur sempre alcuni “nomi”) l’artista di passaggio a Milano evoca più di una connessione con quel che molti ricordano della vocalità nera e di un chitarrismo nervoso di fanciullo prodigio del Blues, che nel 1997 fece gridare al miracolo coll’album Lie To Me, fecondo di umori freschi di novità in quel frangente.
Pur essendo ancora giovane però, l’ormai trentenne Jonny non si vedeva da troppo tempo dalle nostre parti, così tanto che in una decade forse potremmo giudicarci colpevoli di averne perso le tracce e nel frattempo, non fanciulli prodigi ma certamente giovani promettenti, avrebbero potuto esserlo anche altri come Kenny Wayne Shepard, Joe Bonamassa o John Mayer, per esempio. Tutti, in maniera diversa, forse non quello che cercavamo, rendendoci or un po’ dubbiosi delle “galline dalle uova d’oro” (a differenza di eventuali e più gradite sorprese come Dereck Trucks o Luther Dickinson).
Confidando nel fatto che un “visto dal vivo” tuttavia è pur sempre diverso dal risultato che l’industria discografica vorrebbe poi raccogliere, abbiamo approfittato dell’occasione consentitaci e ci siamo ritrovati anche in questa serata, sotto un palco ad aspettare un ragazzo con la chitarra. Ma l’incalzante metafora “johnsoniana” del Blues che viene giù come la grandine si è realizzata solo a metà, se pensiamo che “acini” di tempesta ne sono scesi davvero mentre raggiungevamo l’area archeo – industriale della presente rassegna, mentre solo lontanamente è “piovuto” quel blues catartico, cui l’allegoria di cui sopra poteva genuinamente far pensare. Quando sale sul palco allora, il ragazzo con la chitarra ha la faccia pulita di sempre, con quell’aria d’angioletto che avevamo visto anche al Crossroads Guitar Fest di Clapton (ahimè, solo in dvd) in contrasto con l’ugola diabolica che invece, gli richiede qualche tempo per scaldarsi. E a motore avviato, anche l’approccio chitarristico non delude, le contorsioni vocali virate al nero, condite dalla tensione alla fedele telecaster thinline ad accendere i primi brani. Persino la A Quitter Never Wins, “sofferta” come da copione, lascia ben sperare di altri conigli dal cilindro del buon vecchio Lie To Me. Ma mentre il live procede, ci accorgiamo che a mancare non è la sudata energia che il biondino incalza in un brano via l’altro, quanto piuttosto le canzoni, che si ripresentano nella stessa formula quasi come in serie: Fight For Your Soul è in effetti il titolo dell’ultimo album di Lang e lo stesso sembra rispondervi nelle sue esecuzioni, in un “cliché” interpretativo che miscela piuttosto stilemi soul, appunto, ed R’n’B, in una struttura molto più pop. Ecco perché il blues ci è parso tangente a quell’idea che ci si era fatti un tempo, e quand’anche Angel Of Mercy giunge da Wander This World alle nostre orecchie, è ormai tardi per considerare diversamente il fanciullo prodigio di Fargo. Buon supporto della band, bella presenza e parossismi tecnici, ma neppure riproporre in solo Muddy Waters nei bis può farci cambiare idea sul fatto che il Mississippi, da qui, scorra ancora lontano.
Matteo Fratti
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