JJ Grey – Back in the game

di Matteo Bossi

A nove anni dal precedente lavoro, JJ Grey torna con un nuovo album “Olustee”. Un disco che segna anche il ritorno su Alligator, già casa di cinque progetti discografici tra “Country Ghetto” (2007) e “This River” (2013). “è da matti, non avevo intenzione di far passare così tanto tempo…La vita va avanti. In realtà ho iniziato a registrare alcune parti di questo disco a circa un anno, un anno e mezzo dalla pubblicazione di “Ol’ Glory”. Ma c’era una sorta di linea mobile che si continuava a spostare in avanti. Se qualcuno mi chiedesse da quanto non fai uscire un disco? Gli avrei detto tre o quattro anni. Ma ora ne sono passati nove. È surreale come mi sembri talvolta ieri e talvolta molto tempo fa. E di solito mi sbaglio in entrambi i casi”.

Perciò non c’è stata una ragione specifica.

No, siamo stati spesso in tour…poi c’è stato il Covid ed ha rallentato tutto il processo di registrazione. Non ero pronto, anche quando non eravamo in giro. Onestamente le  musiche del disco erano pronte da due o tre anni, a parte un paio di cose che ho aggiunto dopo e ovviamente gli archi che sono stati suonati in seguito dall’orchestra. Ma i testi non li ho finiti fino a che non sono venuto in questo mio nuovo studio. Poi all’improvviso qualcosa è scattato ed  ho combinato più in due settimane che in otto anni! Ho finito i testi e le parti vocali. La band non li aveva ascoltati prima, li aveva solo suonati in studio in versioni strumentali…Sapevo quel che stavo facendo, più o meno, ma non ha preso forma fino al settembre o ottobre scorso. Coi tempi mi confondo. Scrivere i testi è stata la parte più difficile, volevo che si scrivessero da sé per quanto possibile. Non volevo sedermi e cercare di essere brillante, sarebbe stato un disastro! L’altra cosa è in un certo senso ho preso le distanze dalla musica per un po’, non consciamente, ma se ci penso su penso di avere la tendenza a farlo quando sono a casa. Non mi esercito particolarmente…

JJ Grey ph Steve Rapport

Per tutti  i tuoi dischi precedenti avevi Dan Prothero come produttore, questa volta lo hai fatto tu stesso.

Sì e in parte è stato dovuto al Covid…sono andato molto avanti nel processo, avevo in pratica tutte le canzoni. Una delle cose per cui ho sempre contato molto su Dan era il tono e il suono del tutto. Anche per il cantato per gli ultimi dischi, anzi quasi tutti eccetto “Blackwater”, Dan e Jim Devito agli studi Retrophonics mi hanno aiutato, come mentori, per così dire. Mi hanno messo nella giusta direzione, a seconda del suono che mi piaceva. Cantavo  nel mio piccolo studio casalingo…l’ho fatto a partire da Country Ghetto o Orange Blossom. Non ho fatto niente di diverso stavolta, ma ho realizzato dei demo da solo a casa e poi li abbiamo utilizzati come base. Mi succede sempre di suonare qualcosa alla chitarra che poi non riesco più a rifare…o talvolta è il contrario. Per esempio c’è una canzone intitolata “Rooster” in cui la parte di chitarra è quella del demo originale, così come per “Olustee”. All’inizio ho anche pensato di fare un altro demo in studio, ma poi grazie alle cose che Jim e Dan mi hanno insegnato negli anni, ho capito che non c’era necessità di incidere di nuovo nulla. Ecco come sono diventato il produttore, diciamo che è successo. Ero contento di quello che avevamo e perciò ho solo proseguito.

In “Olustee” fai riferimento agli incendi avvenuti in Florida nel 1998. Le tue canzoni parlano, talvolta, di storie vere accadute nelle zone in cui sei cresciuto. Mi viene in mente “On Palastine”.

Si, è buffo che tu abbia nominato queste due canzoni insieme perché Lake Palastine in effetti si trova a solo cinque miglia da Olustee, sono davvero vicini. Olustee è un insieme di storie che mi raccontava mio nonno riguardo gli incendi e il fatto che è successo a me di trovarmici in mezzo. Ho messo insieme le due cose. Ma non ho mai cercato una connessione con un luogo o un fatto…alcuni riescono a scrivere canzoni come macchine. Io non riesco a farlo, non ho quest’abilità, scrivo solo di quello che vedo. Volevo essere un performer, tenere concerti…ma non ho il talento per essere uno alla Perry Farrell o Anthony Kiedis! Posso solo cercare di giocare semplice e scrivere di cose che mi stanno a cuore.

Una canzone come “The Sea” va in questo senso?

Sì, ed è un altro pezzo che si è scritto da solo. Ogni canzone che richieda un certo grado di mestiere probabilmente non l’ascoltereste perché non vale nulla. Per farti un esempio, a qualcuno puoi dare un discorso scritto su un foglio e sono in grado di leggerlo e interpretarlo, ma per me è diverso. Le canzoni sono come conversazioni e queste sembra che parlino sempre di qualcosa…La parte di chitarra iniziale che avevo per “The Sea” suonava come l’oceano. Continuavo a tornarci su, ma avevo solo il verso “I belong to the sea”…il resto è venuto dopo.

Per quanto riguarda l’unica cover, “Seminole Wind” di John Anderson come l’hai scelta? È una canzone che suoni solitamente dal vivo?

Oh si, mi piace molto John Anderson, “Black Sheep” e diverse altre che ha scritto, ma “Seminole Wind” è la mia preferita. Mi è sempre piaciuta. In qualsiasi band sia stato, cover band o altro, abbiamo finito per suonare una qualche versione di questo brano. E i ragazzi l’hanno suonata benissimo. È stata la prima canzone in studio nella seconda session. Intendo dire che la prima è stata quella dopo “Ol’ Glory”, quando abbiamo inciso le basi di “Starry Night”, “Free High” e un altro pezzo che ora non ricordo. Poi c’è stato una lunga pausa di anni e quando siamo tornati in studio la prima cosa che abbiamo suonato è stata “Seminole Wind”. Non suono molte cover, ma questa volevo veramente farla. L’abbiamo suonata come John Anderson ma musicalmente è venuta fuori molto diversa, con lo stesso spirito però.

E dal punto di vista del testo la senti affine.

Al 100%, sì…sono sicuro che mi abbia influenzato. Anche il video che fece della canzone allora. Ero solo ragazzo ed avevo appena finito il liceo, volevo andarmene dalla fattoria, essere chiunque pensavo di essere…Mia madre mi diede un libro, “A Land Remembered”. Dopo il primo capitolo mi catturò completamente e mi riportò molti ricordi di mio nonno, dal lato di mia madre. Lui era nato nel 1904 o 05 ed era l’ultimo della sua famiglia, il fratello più vicino di età aveva quasi vent’anni più di lui. I suoi genitori e nonni gli raccontavano storie che risalivano alla battaglia di Olustee o anche prima della guerra civile…E lui mi raccontava queste storie, di fatti accaduti nel 1840 o 50. C’era una grande ricchezza e profondità in quelle storie e penso che “Seminole Wind” tocchi le stesse corde.

Ricordo che anche “The Sun Is Shining Down” viene da un racconto di tua nonna.

Si e non sapevo di cosa parlasse. Ricordo che stavamo tornando da un grande festival nella Florida meridionale che un amico organizzava, il Langerado. Stavamo guidando e all’improvviso presi la chitarra e cominciai a suonarla. In pochi minuti avevo tutte le parole e la musica, contemporaneamente. Non avevo idea di cosa trattasse. Solo dopo ho capito che era mia nonna che mi stava raccontando della morte del nonno. Lo stava portando in ospedale ma lui morì nel tragitto. Ed è venuto fuori in una canzone. Qualcuno lo chiama stream of consciousness, ma tutto è stream of consciousness, anche questa conversazione, nessuno di noi sta leggendo da un foglio. La gente pensa ci voglia un talento speciale per scrivere canzoni, ma tutti possono farlo, come trascrivere un dialogo, una conversazione. Non deve nemmeno essere sempre in rima. Anzi alcune delle canzoni che il pubblico apprezza di più sono canzoni che praticamente non rimano. Penso che siano quelle che riescono a stabilire una connessione più profonda. Per la mia esperienza deve essere così, qualcosa di più profondo, quello che ti fa battere il cuore. Come un sussurro che ti guida, un mantra per te stesso, per ricordarti cosa conta davvero. Molte canzoni raccontano cose o sono risposte a domande che avevo. Come se qualcuno stesse cercando di capire il mistero della vita, perché siamo qui o cose del genere, diventa un genio della matematica e un giorno scrive una formula. Ed è qualcosa che stava scrivendo da anni solo che non lo sapeva. Ecco cosa rappresentano le canzoni per me.

JJ Grey ph Steve Rapport

C’è un senso di responsabilità in questo approccio alla scrittura?

Sì, nell’essere sinceri con sé stessi. Una responsabilità rispetto al modo di percepirla e alla mia relazione con essa. Qualsiasi cosa ti faccia deviare da questo automaticamente te ne allontana. Con questo non voglio sminuire chi per professione scriva canzoni pop…ogni cosa ha il suo posto. Ma è una esperienza che puoi fare solo tu, per come la vedo io, come un film, lo devi vedere tu, non possono farlo i tuoi amici al tuo posto. Ma come diceva Colonel Bruce (Hampton) prendo sul serio la musica e la storia, ma io non mi prendo mai sul serio. Non c’è niente di più disgustoso di un musicista che si prende troppo sul serio! Detto questo, penso che, come si suol dire, la vita sia per il 10% quello che ti succede e per il 90% come reagisci ad esso. La responsabilità sta tutta in quella percentuale.

Bruce Hampton incarnava davvero questo tipo di spirito.

Assolutamente. Non lo conoscevo benissimo, se non tramite il mio amico Ted Pecchio. Ted ha suonato per anni con Susan Tedeschi poi quando lei e Derek hanno messo insieme la band è venuto a suonare con me. In seguito non potendo andare in tour Todd Smallie, che suonava il basso nella Derek Trucks Band, ha preso il suo posto. In fondo siamo tutti parte di una grande famiglia. Ted  mi raccontava sempre le cose che diceva Colonel Bruce. Era un essere umano speciale, una persona profonda, divertente, buffa. È incredibile quanti grandi musicisti abbia aiutato. E avevano talento anche prima di incontrarlo ma lui riusciva a indirizzarli verso i loro punti di forza. Vorrei averlo conosciuto di più, anche se poi ci siamo incontrati. Ted suonava con Bobby Lee Rodgers e inizio anni 2000 e per un po’ sono stati la band di Hampton. Ma lui dopo un po’ cambiava e faceva venire il prossimo lotto, che si trattasse di Jimmy Herring o dei fratelli Burbridge….che spirito meraviglioso.

Hai ripreso contatto con Alligator ad un certo punto?

I conttatti non si sono mai interrotti, in un certo senso. Volevo davvero venire in Europa e Mascot ha base lì, ha contribuito a migliorare le cose per noi, ho incontrato molte persone. E stiamo lavorando per tornare in Europa. Per questo tour  avremo una band di undici elementi invece degli abituali sette, non so se posso permettermelo, lo scopriremo…Abbiamo una settimana di concerti nel mese di giugno e poi torneremo in autunno, probabilmente. Vorrei venire in Italia, ne sono un grande appassionato, è uno dei vertici della storia umana per le arti, la musica, tutto quanto. Mi piacerebbe andare a Firenze a vedere Michelangelo, mi ricordo che mia moglie, all’epoca era prima di sposarci, mi regalò un libro di Irving Stone, una biografia, intitolata “The Agony And The Ecstasy” (Il tormento e l’estasi).

 


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