Classe 1989, originario di Los Angeles, quartiere di South Central, seppur residente da anni a New York, Jerron Paxton ha fatto parlare di sé da diverso tempo. È facile rintracciare in rete filmati di lui appena ventenne alle prese con una musica antica, presto invitato a suonare da festival e locali, su social o piattaforme come Playing For Change. Non aveva ancora inciso dischi che, nel 2012, Living Blues già gli dedicava la copertina, ponendolo tra gli alfieri della nuova generazione di artisti di blues acustico.
Da allora ad oggi sono persino aumentati i rappresentanti di questa corrente, pensiamo a Jontavious Willis, Andrew Alli o Jayy Hopp per esempio; tuttavia, le testimonianza discografiche di Paxton restavano sporadiche. Due EP Direct-to-Disc per la APO e un’autoproduzione, “Recorded Music For Your Entertainement”, risalente ormai a dieci anni fa. In mezzo c’è stata anche la partecipazione al pluripremiato documentario “American Epic” (sulla storia della musica roots e delle sue prime modalità di registrazione) e alle sue emanazioni discografiche. Ottima notizia, dunque, il suo approdo alla Smithsonian Folkways, già casa per gli ultimi progetti del suo collega Dom Flemons e depositaria di un patrimonio musicale importante (Arhoolie, Folkways, Paredon…), per questo nuovo “Things Done Changed”.
Paxton, qui sembra aver lasciato da parte l’appellativo Blind Boy che talvolta lo ha caratterizzato, in copertina è ritratto con una chitarra, ma è un polistrumentista in grado di padroneggiare con impressionante disinvoltura anche banjo, armonica, violino e piano ed è autore di tutti i dodici brani del disco. Confeziona brani di ruvida bellezza, con le radici ben salde nella tradizione, tanto da poter passare senza problemi per pepite dissotterrate da qualche archivio Paramount o Vocalion. La tecnica sciolta va di pari passo con una visione della musica di matrice folklorica molto chiara e definita, un bagaglio culturale e sociale trasmesso e animato dalla generazione dei nonni, cresciuti nella Louisiana settentrionale, alla sua.
Ogni brano esprime questa versatilità, mai fine a sé stessa, dalla malinconica canzone titolo, alla ritmata “It’s All Over Now”, suonata con banjo e percussioni. Curiosa e riuscita “So Much Weed”, un’osservazione sull’uso sempre più diffuso della marijuana. Mentre “Little Zydeco” è un interludio strumentale con un’armonica guizzante è ancora il banjo lo strumento cardine di “What’s Gonna Become Of Me”, strumentalmente non così distante da alcune pagine del trance blues di Otis Taylor. Molto valido il blues “Brown Bear Blues”, dall’andamento classico, suonata con gran perizia ed anche al piano si rivela credibile anche quando, in “Oxtail Blues” lamenta una impennata dei prezzi anche di cibi economici come la coda di bue. Senza scomodare altri paragoni, Jerron Paxton ci regala un disco di country blues rigoroso e vivido, smentendo chi non avesse dubbi che questa musica densa di storie, possa continuare a raccontarle con immutata forza e creatività, negli anni Venti del XXI secolo.
Matteo Bossi
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