L’attività pluridecennale di Guy Davis in ambito artistico lo ha portato ad alternare spesso la musica alle performance teatrali, sia come attore per altri progetti che scrivendo lui stesso alcuni spettacoli, cucendoseli addosso in modo da combinare il racconto o per dirla in inglese lo storytelling e la musica. È stato il caso di “In Bed With The Blues -The Adventures Of Fishy Waters”, tradottosi anche in un doppio CD alcuni anni fa.
Più recentemente, Guy ha portato in scena una nuova pièce, “Sugarbelly And Other Tales My Father Told Me”. E quest’album è, almeno in parte, figlio del lavoro teatrale. Lo si evince sin dal titolo “The Legend Of Sugarbelly” (ancora per la M.C. Records), dedicato a suo zio William Conan Davis e a Phil Wiggins, da poco scomparso. Si muove in continuità con il suo percorso, fatto di una musica che ha basi solidissime nella tradizione, una matrice acustica e una strumentazione ridotta, con Davis (chitarre, banjo suonato forse più spesso che in altri dischi) attorniato da collaboratori abituali quali Mark Murphy (basso, cello), Chris James (mandolino e banjo) e Aaron L. Hurwitz alias Professor Louie (organo), quest’ultimo figura anche come coproduttore.
La leggenda di “Sugarbelly” apre il disco e combina la finzione ad accadimenti veri, un racconto trasmesso a Davis dalla sua famiglia (padre, zii e zia) sull’omicidio di una donna, di cui loro conoscevano l’assassino. Una sorta di murder ballad che conferma per l’ennesima volta la capacità di costruire e rendere vivida una parabola da parte di Guy. Dallo repertorio dello spettacolo provengono anche la vivace“Long Gone Riley Brown” e “Come Gitchu Some”, entrambe autografe ma dal sapore tradizionale, con begli intrecci di armonica, banjo, chitarre e mandolino. “Early In The Morning” è una sua ballata elegiaca di stampo folk/gospel (sarebbe piaciuta probabilmente al suo amico Pete Seeger) sul commiato a persone care, composta per una diretta sui social e poi entrata a far parte del suo repertorio di scena, qui con il ritornello cantato in coro (tra le voci compare anche il figlio Martial Davis, autore anche delle foto di copertina).
Anche gli altri brani, che siano scritti da lui quali la bella “Firefly”, oppure credibili riprese di “12 Gates To The City”, “Black Snake Moan” o ancora “Little David Play On Your Harp”, sono rivissute con estremo rispetto e il calore della sua voce, con l’intento, esplicitato del resto nelle note, “di rispecchiare musica di un altro tempo”. Se conoscete già Davis, magari lo avete visto in occasione dei tanti passaggi italiani, non vi sorprenderà quindi la qualità della performance nell’arco del disco e nemmeno la rielaborazione personale di una vasta materia di natura folklorica. Torna in mente quanto ci disse qualche tempo fa nel corso di una intervista, “[…] mi preoccupa che venga tenuta viva la sua cultura, le storie delle persone, non soltanto la musica. […]”. Ecco questi elementi, l’attenzione alla cultura e all’oralità appunto, sono evidenti anche stavolta e sono gli stessi che hanno contraddistinto, da almeno trent’anni ad oggi, la sua traiettoria. Rendendolo, giustamente, uno dei riferimenti certi per le nuove generazioni di bluesmen acustici, che per fortuna non mancano, a cominciare da Jontavious Willis.
Matteo Bossi
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