Cresciuto a Philadelphia, da padre originario di Haiti, Greg Sover è un cantante e chitarrista di cui ci siamo già occupati in passato (il suo “The Parade” era recensito ne Il Blues n.154), appassionato di blues/rock classico anni Sessanta, non disdegna infatti riprese di Cream o Hendrix. Nel suo nuovo lavoro ha avuto l’opportunità di suonare addirittura con Billy Cox, che di Jimi è stato amico e collaboratore. Ce ne parla in questa intervista realizzata da Mike Greenblatt.
Complimenti. Ho appena finito di ascoltare le dieci tracce di “His Story”. La tua intenzione è chiara. Sposti la musica in avanti. La connessione con Jimi è forte ed hai alcuni ottimi musicisti con te. Ho avuto la fortuna di assistere ad una jam di Jimi con Sly Stone in un piccolo club del Greenwich Village nel 1969. Mi piace molto quello che hai fatto con “Manic Depression”, con il bassista della Band of Gypsies, Billy Cox. Ed è davvero una chicca aver tirato fuori un pezzo di Jimi come “Remember”.
Quella è stata pubblicata solo in Europa originariamente e solo postuma negli States. Jimi voleva rifarla con Billy Cox ma la sua prematura dipartita ha fatto sì che questo non avvenisse. Billy ha suggerito di farla. Pare sia rimasta a prendere polvere su uno scaffale.
Non riesco a immaginare come si sia sentito Billy quando Jimi è scomparso improvvisamente, considerando i progetti musicali che avevano insieme.
Ne risente ancora oggi. Lo capisci quando parla di Jimi, è qualcosa che va oltre la mancanza del suo grande amico. Billy ne è rimasto davvero devastato. È stata una cosa del tutto inaspettata. Non dimenticare quanto erano legati. Sono stati nell’esercito insieme ed erano amici anche quando Jimi era con Mitch Mitchell e Noel Redding nell’Experience. Erano migliori amici quando lui, Jimi e Buddy Miles hanno formato la Band of Gypsies. Oggi Billy non parla volentieri dell’argomento. Gliel’ho chiesto una volta e basta.
Dio solo sa cosa avrebbero potuto fare insieme se Jimi fosse vissuto. La canzone in sé è un pezzo dolce, melodico, upbeat. Hai detto che quando l’hai ascoltata per la prima volta, l’assolo originale di Jimi era così minimale che lo potevi sentire a stento.
Corretto. C’era una sezione di assolo in cui riuscivi a sentire distintamente l’inizio ma facevi fatica a sentire esattamente cosa stesse facendo alla fine. Era semplicemente difficile ascoltarla, non so se fosse dovuto al mixaggio o meno. Sono sicuro che stesse suonando qualcosa che aveva ben chiaro in mente al momento, ma sia finita coperta dal mix. Non che abbia dovuto inventare il mio assolo, ma mi sono dovuto concentrare a fondo per sentire cosa stesse cercando di fare. In questo modo ci ho messo del mio.
Billy Cox ha dichiarato che Jimi avrebbe apprezzato quello che hai fatto. Come vi siete trovati a collaborare?
Attraverso i nostri manager. Avevo questa idea folle di incidere una cover di “Manic Depression”. La canzone si adattava all’album perfettamente i termini non solo musicali ma anche tematici, rispetto a quello che cercavo di comunicare coi testi. Perciò il mio manager ha contattato il suo e Billy ci ha risposto. Da casa mia a Philadelphia, siamo andati a Nashville a incontrarlo e abbiamo scoperto che è un tipo fortissimo. Abbiamo conosciuto la sua famiglia e i suoi amici. Abbiamo finito per fare un video insieme.
Hai davvero reso vivida “Manic Depression”. Ed è una canzone fatta apposta per essere interpretata, in special modo oggi.
C’è molto cuore in quella canzone. Non volevo solo dimostrare a chi ascolta che sono in grado di suonare Jimi Hendrix. Volevo piuttosto dimostrare come sono in grado di ascoltare Jimi e venir fuori con qualcosa che sia allo stesso modo rispettoso e moderno. Prestare attenzione alla tradizione, non riarrangiare, né renderla oscura, ma aggiungere un elemento moderno a quanto Jimi ha portato in tavola e mi ha fatto amare la versione originale. C’è davvero un po’ di caos in quella canzone.
Sembra davvero che il fantasma di Jimi si aggiri attorno a queste dieci tracce, non solo le due cover con Cox. I tuoi testi per “Freedom Part #2” si riferiscono all’esperienza dell’essere afroamericani e cercare di vivere in pace in America. Jimi ha scritto la “Freedom” originale come esprimendo una forma di liberazione personale con Cox e Mitch Mitchell pochi mesi prima di morire a Londra, il 18 settembre 1970. Uscì postuma, era la traccia d’apertura di “The Cry Of Love”, pubblicato il 5 marzo 1971.
Oltre a quell’esperienza, c’è tutto l’aspetto “fight for freedom”. Ho notato che quando qualcuno fa qualcosa in nome della libertà, viene o ridicolizzato o cancellato. La canzone parla delle nostre libertà, delle proteste, delle reazioni necessarie alle cose, come ha fatto il giocatore di football Colin Kaepernick – che si sia d’accordo con lui o meno – che ha esercitato la libertà di inginocchiarsi durante l’inno nazionale per protestare su come vengono trattati i neri in questo paese. Per questo è stato ridicolizzato. Ma ci sono anche altre questioni. Mi stavo rivolgendo ad una società che si scaglia contro questi valori quando ho scritto, “is freedom mine? Is freedom free? Because look at the pain freedom’ costing me!”. Voglio dire, se ci pensi bene, ogni volta che compi un atto di libertà come Kapernick, a costo della sua carriera, vieni messo da parte o schernito. Vieni cancellato e cessi in pratica di esistere. Il ginocchio di un giocatore ha dato inizio a tutto. Ed ha fatto un enorme sacrificio in nome di ciò in cui credeva.
Questo è il segno di un grande pezzo di musica, riesci ad esporre un tema importante, eppure lo suoni talmente bene che a quel punto tocca all’ascoltatore decidere se andare fino in fondo ed approfondire o restare in superficie ed abbandonarsi al groove e alla qualità impeccabile della performance. Sono entrambe valide. In un altro senso, “Dark House” è misteriosa e drammatica, nessun dubbio sul perché sia il brano d’apertura del disco. Stabilisce il tono, per così dire, per il resto del disco.
Esatto, ecco perché è in apertura. Ho un pubblico fedele ora e volevo dar loro qualcosa di diverso. Sono nel campo blues/rock da molto, era arrivato il momento. “Dark House” è una storia vera. Mia mamma è mancata e mi sono dovuto occupare della casa. A volte dovevo proprio andare via e stare da una amica la notte, ma dovevo comunque ritornare in quella casa scura. Le luci erano spente, non c’era elettricità. Mia zia, che al tempo viveva lì, accendeva candele. Sono di Haiti e ho usato un termine vernacolare haitiano che molti non conoscono, significa “non puoi nasconderti”.
È molto cinematografica.
Grazie. In più penso che suoni benissimo. Come hai detto, ad alcuni piacerà per l’atmosfera senza conoscerne il significato, ma va bene anche così.
Questo dualismo tra “good rockin’ music” e “musica con un messaggio” è nelle mani dell’ascoltatore. Le tue canzoni funzionano in entrambi i sensi. “Temptation” ricorda per atmosfera certe cose di Texas blues alla Stevie Ray Vaughan.
Sono un grande fan di Stevie Ray. Mi ricordo che quando stavo imparando a suonare la chitarra un mio buon amico a Philadelphia mi diceva sempre, “non suonare troppa di quella roba di SRV”. Secondo me ci puoi ancora sentire qualcosa di Philadelphia, ma per quanto riguarda il suono ti fa capire da dove vengano le sue radici.
Stevie Ray adorava Jimi. Lo riteneva tra i migliori. Oltre a Billy Cox, ci sono alcuni pesi massimi nella tua band: David Uosikkinen, batterista di The Hooters, il bassista Kenny Aaronson, che ha ho suonato con tutti, da Bob Dylan, Rick Derringer e Billy Idol a Joan Jett e Hall & Oates.
Abbiamo fatto ancora poche date insieme, ma come suonano! Mi hanno presentato Dave e Kenny e ci siamo intesi da subito. Siamo della stessa stoffa, musicalmente parlando. Quella rock’n’roll/classic rock/ blues. Così ci siamo apprezzati l’un l’altro immediatamente ed è un piacere suonare con loro. Sono grandi. E Kenny, oltre a tutta la gente con cui ha suonato, è un bassista eccezionale. Accidenti! Questo tipo sa davvero suonare, sa fare tutto su quel basso. Gli ho chiesto come fosse suonare con Dylan e mi ha detto solo che Dylan se ne sta per conto suo e non interagisce molto fuori dal palco con i ragazzi della band.
Ho sentito dire che non bisogna parlagli se prima non ti rivolge lui la parola. E ti dicono di evitare qualsiasi contatto visivo.
Kenny mi ha detto che se ne sta sulle sue. Molti artisti che hanno raggiunto un certo livello sono così. Non sono sicuro però che ci sia qualche altro artista che abbia raggiunto il livello di Bob. Lui è un’icona. Non so se ci sia una definizione adatta per qualcuno come lui.
Hai suonato la chitarra in molte band. Raccontami com’è stato suonare nella band del pugile Joe Frazier. Una cosa di Philadelphia.
Purtroppo, è stato solo per delle prove. Prima del nostro primo concerto è stato ricoverato in ospedale e se ne è andato poco tempo dopo. Ho passato l’audizione ed ero davvero elettrizzato. Un vero peccato, ero pronto a suonare e lui sembrava stare bene. Gli parlavo e aveva questa ragazza molto giovane al suo fianco. Poi ho saputo che era malato e non ce l’ha fatta. Ho potuto provare solo una volta con lui dopo l’audizione.
Dove è stata scattata la foto con la tua Strat rossa sulla copertina di “His-Story”?
A Nashville di fronte all’HBCU (Historically Black College or University). Su Jefferson Street, poche porte più in là, ci fu una “battle of guitars” cui prese parte Jimi e perse per via di problemi con l’attrezzatura. Non credo che fosse ancora Jimi Hendrix, era ancora Jimmy James all’epoca. Il tizio che vinse aveva soltanto un ampli migliore. Vinse di default. Un sacco di grandi musicisti sono passati da questa strada, è un posto storico.
“His-Story” esce per la tua etichetta, Grounded Soul.
Sì, l’abbiamo fondata io e il mio manager, siamo soci in questo progetto. Cerchiamo di farla diventare una vera etichetta, non solo un veicolo per le mie produzioni. Ovviamente vorrei affermarmi di più grazie al mio disco, ma la speranza è di mettere sotto contratto altri artisti col tempo. Mi piace l’idea di mantenere viva un’eredità culturale ed aiutare altri artisti nel loro percorso. Aiutarli in modo che evitino alcuni degli errori che ho commesso, dar loro opportunità che io non ho avuto.
Hai anche coprodotto il disco. Puoi parlarmi del processo creativo?
Jim Salamone, che ha lavorato con Sigma Sound, è un buon amico. Una persona seria. Per quanto riguarda il processo, scrivo le canzoni, registro dei demo con la chitarra e un sample di batteria prima di portarli ai Cambridge Studios nella zona sud di Philly, per provarli con la band, Dave alla batteria e Kenny al basso. Rifaccio le mie parti vocali e di chitarra, arrangiamo il pezzo e completiamo la produzione. Aggiungiamo quello che c’è da aggiungere, rifaccio gli assolo finchè non sono giusti. Sono molto fiero di questo disco.
Il tuo quarto.
Sono orgoglioso anche di “Songs Of A Renegade” (2016), “Jubilee” (2018) e “Parade” (2020), ma “His-Story” mostra la mia crescita. Nei primi due stavo ancora cercando di capire molte cose, in un certo senso. “Parade” dimostra un certo grado di comprensione del processo creativo, almeno secondo me, anche se era un po’ corto, avendo solo sette tracce. Ora, con le conoscenze che ho acquisito, dato che l’ho scritto io, penso di aver messo insieme tutti i pezzi. È un po’ più rifinito ma racchiude lo stesso l’innocenza che voglio la mia musica conservi. L’aspetto ruvido. Ma non vuoi che venga fuori troppo pulita. Penso di sapere cosa sto facendo ora. Ho trentotto anni e mi sento abbastanza giovane da mettere in pratica quanto ho imparato, ma non mi sento diverso da quando ne avevo diciassette. Dipende tutto da come ti senti. Anche a settant’anni mi sentirò così. L’età non è reale e nemmeno il tempo; è tutto un’illusione.
Mike Greenblatt
(traduzione Matteo Bossi)
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