Se ne è andato pochi giorni fa, il 26 gennaio, Dick Waterman, un uomo che negli ultimi sessant’anni ha esercitato un ruolo cruciale nell’ambito della musica americana. Eppure, nel giugno del 1964, Waterman, allora ventinovenne, lavorava come giornalista e non immaginava di certo la piega che avrebbe preso la sua vita di lì a poco. Con due conoscenze, oltretutto recenti, Nick Perls e Phil Spiro, si era messo in macchina, direzione Memphis e il Mississippi, sulle tracce, invero labili, di Son House. Il resto è storia, si potrebbe dire. Come noto, per trovare House dovranno tornare verso nord, a Rochester, New York. Quell’incontro è uno spartiacque sia per il leggendario musicista che per Waterman.
Diviene infatti manager e agente di Son House e pian piano, tramite la sua Avalon Productions, di molti altri artisti e non sono nomi qualunque, pensiamo a Fred McDowell, Robert Pete Williams, Buddy Guy e Junior Wells, una giovane Bonnie Raitt, per citarne solo alcuni. Un ruolo che, a detta degli stessi artisti, ha sempre rivestito con spirito di leale collaborazione e rispetto, cercando di salvaguardare per prima cosa gli interessi dei musicisti stessi. Un atteggiamento per così dire etico, tutt’altro che scontato, oggi come allora. Ma la sua attività abbraccia altri ambiti, in primis come fotografo, in grado di ritrarre alcuni dei più straordinari artisti del XX secolo. Come scriveva l’amico Renato Tonelli nell’introduzione al volume Roots’n’Blues, catalogo della mostra di sue foto tenutasi alla reggia di Colorno, nel 2006, “Non è solo questione di accesso o di essere presenti e scattare al momento giusto […] con molti di loro era amico intimo e da queste immagini crediamo di conoscere il loro stato d’animo, almeno in quel lontano momento. Perciò non si tratta di un lavoro di mera documentazione storica, ma è molto di più […]”.
Dalla seconda metà degli anni Ottanta si era trasferito a Oxford, Mississippi e si occupava della gestione del suo nutrito archivio, dal quale ha ricavato lo splendido libro “Between Midnight And Day” oppure solamente due anni orsono, una testimonianza dal vivo inedita di Son House, “Forever On My Mind”, pubblicata dalla Easy Eye Sound di Dan Auerbach. E chissà se in futuro ce ne saranno altre. Sempre affabile e appassionato, è intervenuto spesso per lavori sulla musica, letterari o cinematografici, con le storie di cui è stato protagonista o testimone diretto. Ricordiamo ad esempio il documentario “Two Trains Running” di Sam Pollard, in cui veniva rievocata proprio la spedizione del giugno 1964.
Waterman aveva anche acconsentito, non senza qualche iniziale dubbio, alla realizzazione di una biografia su di lui, scritta da Tammy L. Turner, dall’azzeccato titolo di “A Life In Blues” (University Press Of Mississippi). La perdita di figure come la sua o come quelle avvenute nell’ultimo anno, di Chris Strachwitz, Neil Slaven, Larry Cohn e Marino Grandi, lascia, inevitabilmente, un vuoto. Le loro sono personalità che, in tempi e modalità differenti per ognuno, hanno saputo trasmettere e tramandare la passione integra e profonda per una musica, le sue culture e le persone che l’hanno originata e nutrita. Doveroso esprimere la nostra gratitudine a Dick Waterman che con tutto il suo operato, ha contribuito a tenere acceso un faro in grado di proiettare la sua luce fino al nostro incerto presente.
Matteo Bossi
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