Etichetta: Autoprodotto – 2022
Dal suo esordio discografico nel 1999 sono già passate due decadi abbondanti, ma è solo da qualche anno che il talento del chitarrista sudafricano è stato riconosciuto al di fuori dei confini nazionali: infatti nel 2014 il suo settimo lavoro, “Dear Silence Thieves”, è stato votato come album dell’anno da Blues Rock Review.
Da allora la sua fama è cresciuta, sia per le tournée internazionali, specie quelle intraprese insieme a gente del calibro di Bruce Springsteen e Joe Satriani, sia per una serie di riconoscimenti ricevuti da diversi periodici. Altre due uscite discografiche di sicuro interesse fino al più recente “Shelter of Bones”, nuovamente acclamato da più parti come uno dei migliori CD del 2022; Dan Patlansky ha raccontato che il periodo della pandemia gli ha come consentito di riprendersi un tempo più ampio per pensare a come creare la sua musica.
Sono stati tre anni complessi, con molti alti e bassi che, di conseguenza, riflettono l’attuale condizione del chitarrista e la sua visione del mondo: lo dichiara immediatamente con l’apertura di “Soul Parasite”, un prepotente rock che denuncia l’ipocrisia della maggior parte dei parassiti di anime che governano il mondo moderno.
L’assolo carico di energia esprime tutta la sua rabbia, che ritorna spesso nelle varie canzoni: le influenze Vaughaniane emergono nella successiva “Snake Oil City”, dove descrive un luogo immaginario in cui risiedono bugiardi, ladri, corrotti, che il musicista associa all’attuale governo sudafricano.
L’album offre numerosi risvolti personali di Patlansky, che racconta della sua dipendenza dal tabacco in “Selfish Lover”, come pure della difficoltà nel vivere il presente perdendo di vista i valori familiari in “Presence”, entrambi potenti rock blues: dai quali però si allontana per raccontare la preoccupazione per la salute della moglie Gisela nell’intensa ballad “Lost”, con l’assolo che trasmette la serenità ritrovata al termine di un percorso difficile.
Analoga atmosfera caratterizza “Sweet Memories”, dove riguarda quasi con gratitudine al blocco forzato per la pandemia, che gli ha consentito di recuperare il tempo perduto, lontano dalla famiglia: la fluidità sulla sei corde continua a regalare riff e assoli accattivanti, come quello che emerge fra le righe dell’aggressiva “Bad Soul” o nuovamente nella delicatezza della pinkfloydiana “I’ll Keep Trying”, dove forse regala il momento più emozionante, pagando il suo debito a David Gilmour.
Dalle pregevoli venature funky di “Devils Dopamine” alla sincopata “Hounds Loose”, si giunge alla toccante title track che, con la delicatezza del pianoforte, esprime le paure e le speranze di un padre nei confronti dei figli che crescono in un mondo complesso.
La voce di Patlansky sa essere sia graffiante che melodiosa, i suoi arrangiamenti riescono a proporre rock di grande impatto ma slow di pari intensità: il risultato è decisamente positivo e ci invoglia senz’altro a conoscere meglio questo musicista.
Luca Zaninello
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