Etichetta: Alligator 5002 (USA) – 2021
Quarto album per l’Alligator per Curtis Salgado, una lunga intervista con lui la pubblicammo sul numero 147 de Il Blues, seguito del riuscito progetto acustico con Alan Hager, “Rough Cut” (Il Blues n. 142).
In questo caso Curtis è tornato ad una produzione più composita, fatta di elementi rhythm and blues, soul e rock’n’roll, con un ensemble allargato in pratica a tre gruppi diversi, corrispondenti ai tre studi, tra la California e Nashville, in cui sono avvenute le registrazioni.
Accanto a nomi ricorrenti nei suoi dischi come Mike Finnigan, Tony Braunagel o Johnny Lee Schnell, troviamo nelle session californiane Kid Andersen, Jerry Jemmott e due ex componenti della Robert Cray Band, quali Jim Pugh e Kevin Hayes (batteria). Curioso quindi come i percorsi di Salgado e Cray, soci in gioventù, continuino paralleli all’insegna della stessa musica che amavano allora.
Salgado in questi anni ne ha passate tante, eppure forse proprio la consapevolezza di aver superato momenti complicati ne ha affinato la percezione e l’apprezzamento per la vita stessa. Non sarà un caso che canti “più vivo e più voglio invecchiare” in “The Longer That I Live” o un altro brano sia intitolato “Precious Time”. Quest’ultimo, un bel tempo medio, ricorda alcune cose di Delbert McClinton e in effetti ritroviamo al piano Kevin McKendree, suo collaboratore abituale.
Ma non si pensi ad un disco malinconico o ripiegato su sé stesso, anzi sembra voler recuperare la musica degli anni Cinquanta con la leggerezza della maturità, i pezzi rock’n’roll non sono episodi isolati, a cominciare da “You’re Going To Miss My Sorry Ass”.
Ma questa volta allarga anche lo spettro sonoro fino ad includere un episodio zydeco, “Truth Be Told”, con ospite Wayne Toups alla fisarmonica e canto.
Salgado che è anche ottimo armonicista, in questo disco la usa con parsimonia, quando lo fa si dimostra stilista in grado di definire l’atmosfera di un brano con alcune pennellate, è il caso di “The Fix Is In”, in cui guarda allo stato dell’America, tra avidità, disincanto e paura.
Un bel disco, che si chiude ancora all’insegna del rock’n’roll con l’unica cover, “Slow Down” hit del 1958 di Larry Williams (ripresa pure dai Fab Four).
Matteo Bossi
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