Ci sono occasioni in cui bisogna sfidare una pioggia battente e un vento minaccioso, sicuri poi di farci avvolgere da un calore afro-americano, come quello di Corey Harris. Se da una parte non ha mai smesso di fare concerti in giro per il mondo, dall’altra, non per sua volontà, in Italia le sue apparizioni sono diventate piuttosto rare da qualche anno. Ecco dunque che al suo passaggio nei dintorni di Bellinzona la domenica pomeriggio del 5 Novembre scorso, al Grotto Matafontana, uno stanzone appoggiato alla montagna dove non esiste distanza fra il musicista e il pubblico, non potevamo mancare, malgrado un viaggio di andata e ritorno con una situazione metereologica di cui sopra.

Lo abbiamo ritrovato con piacere e in ottima forma nella sua sfera di artista dal percorso singolare, in grado, come pochissimi altri colleghi, di incorporare nella propria musica la tradizione blues riletta con approccio rigoroso ed essenziale, i richiami all’Africa occidentale e alcuni passaggi reggae, pronunciati a tratti con un canto istintivo ed evocativo, e suonando la chitarra acustica non solo come accompagnamento, ma come estensione dell’espressività del momento fra fervore e delicatezza. Quasi due ore di concerto che ha iniziato con le atmosfere del suo esordio, per passare agli omaggi asciutti e insieme profondi di alcuni grandi bluesmen del passato attraverso “Black Woman Gates”, “I’d Rather Be The Devil”, “Black Angel Blues”, “Pony Blues” o “Catfish Blues”.

Foto di Matteo Bossi

Affronta una serie di brani gospel, con un rimando diretto a Blind Willie Johnson, “Bye And Bye I’m Going To See The King / Dark Was The Night-Cold Was The Ground / Keep Your Lamp Trimmed And Burning”, bellissimi e con una slide intensa. Ritorna su alcuni suoi brani, spesso su temi sociali o di attualità, come “Watching You” ispirato alla nota vicenda di Edward Snowden oppure “Red Man”, dedicata ai nativi americani. Adatta l’accordatura e ringrazia il pubblico per la pazienza, prima di una stupenda “Special Rider Blues” e “Farafina”, un brano di estrazione africana, d’altra parte Corey ha suonato spesso con Ali Farka Toure e Boubacar Traore. “You Gotta Move” sigilla la prima parte di concerto, mentre nel proseguo Harris attinge di nuovo al suo repertorio personale, “Money Eye”, “i soldi sono sporchi e come ci diceva la mamma, bisognava lavarsi le mani dopo averli maneggiati”, dice lui, oppure “Black Maria”, entrambe tratte da uno dei suoi dischi più stratificati, “Downhome Sophisticate”. Gli accenni reggae, altra sua passione, sono in “Walter Rodney” e “Conquering Lion”, mentre un momento più cantautorale è “Daily Bread”. In quasi due ore di concerto, il viaggio musicale compiuto seguendo Harris riporta costantemente alle fondamenta della musica afro-americana con la consapevolezza e solennità che emana la sua figura. La serata, o meglio il pomeriggio, era stato inaugurato da Max Prandi per un simpatico excursus tra John Lee Hooker, qualche classico rock, gospel o soul rivisitato, “Proud Mary”, “A Change Is Gonna Come” e un paio di blues con la partecipazione all’armonica di Lorenzo Albai dei Jesus On A Tortilla.

                                                                                                        Matteo Bossi  e Silvano Brambilla

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