Chris Cain – Born to Play
di Matteo Bossi
Sono successe molte cose dal fulminante esordio di Chris Cain, “Late Night City Blues”, uscito nel 1987. Non vi è alcun dubbio che sia diventato, col tempo, uno dei musicisti più rispettati e ammirati sulla scena, in primo luogo dai suoi colleghi. È altrettanto vero che negli ultimi anni, con le produzioni targate Kid Andersen e realizzate nei suoi studi Greaseland, Cain abbia realizzato alcune delle cose migliori della sua carriera. E la striscia positiva prosegue con il nuovo “Good Intentions Gone Bad” in uscita in questi giorni per Alligator. L’impressione è condivisa dallo stesso Cain, all’inizio della nostra conversazione. “Grazie, si lo penso anche io…non so come mai accada oggi, ma sembra davvero essere così. E quello che ho pubblicato con Little Village non doveva nemmeno essere un disco, erano solo canzoni che piacevano a mio padre, cose di Guitar Slim…e poi Kid mi ha detto – dovresti farne un disco- E così lo abbiamo fatto e sono contento di come sia venuto. E degli ultimi due album per Alligator sono veramente contento perché intanto è stato bello farli, ci ho messo amore e anche Kid. Mi fa piacere che anche altre persone lo abbiano apprezzato.”
Ci sono canzoni molto personali in questi dischi, penso a “Blues For My Dad” sul nuovo lavoro.
E sai, avevo detto a Kid che questa non era adatta al disco. Gli ho portato i miei demo e quando ha sentito questa canzone mi ha detto, “che cos’è questa?” Oh non è per il disco questa, è solo una cosa che ho scritto molto tempo fa per mio papà. E lui ancora, “no questa è ottima!”. Abbiamo discusso per qualche ora, gli ho detto che non andava bene per il disco e che avrebbe finito per farmi cacciare dall’etichetta…ma abbiamo fatto un demo, l’abbiamo registrata e insomma…avevo torto. Sono felice mi abbia convinto a farla, non credo di aver mai fatto nulla di così personale finora. Ogni volta che mi dice qualcosa del genere finisce per aver ragione, il modo in cui conduce le session a Greaseland è davvero un grande esperienza, facile e rilassata.
Molti di quelli che hanno registrato a Greaseland raccontano di come si sia creata una bella comunità, una famiglia musicale.
Oh si, è incredibile quello che è riuscito a fare lì. Kid lavora con passione e va al di là del dovuto per creare un suono che sia il migliore possibile. È una bella persona e sa davvero quello che fa, è fantastico con le apparecchiature e tutto il resto.
Nell’album c’è “Thankful”, un duetto tra te e Tommy Castro, siete amici da anni.
Sì, volevo fare una canzone alla Sam & Dave, con due gentiluomini che cantano insieme…e ho pensato -non sarebbe bello se Tomas potesse cantarla con me? Ma è sempre occupato. Abbiamo fatto un demo e Kid ha cantato quella parte e lo ha fatto benissimo. Ha chiesto a Tomas e lui ha accettato. È venuta fuori una cosa davvero bella. In effetti ci conosciamo da tanto tempo ed è sempre stata una persona fantastica. Quando ha cominciato ad avere successo non è cambiato per nulla, ci siamo conosciuti prima che fosse noto come Tommy Castro ed è un tipo forte, sono contento sia sul disco.
Siete entrambi sulla stessa etichetta ora. E in passato avete inciso tutti e due per la Blind Pig.
Si, questo ha aiutato. Lui ha fatto parte di un paio di band prima di realizzare il suo esordio come Tommy Castro, andai da Tower Records ed eccolo lì! E poi quando ero ad uno dei suoi concerti ricordo di aver pensato, “ragazzi, diventerà come Bruce Springteen, ha un modo di mettersi in connessione col pubblico…questo è un dono”. Poi esplose davvero, una gran bella cosa.
Sei andato al College, una esperienza che non molti musicisti hanno fatto.
I miei genitori pensavano che questo avrebbe incasinato il mio modo di suonare, avendo imparato ad orecchio. Ma ho detto loro che c’erano cose che dovevo assolutamente apprendere. Una volta ho visto Robben Ford in trio e ha detto qualcosa agli altri e venti secondi dopo hanno fatto una specie di arrangiamento istantaneo, “che cosa gli aveva detto?” Per questo sono andato a scuola, non sapevo come comunicare in questa sorta di codice musicale…ed è stato un bene. Mi piaceva molto esercitarmi ogni giorno.
Poi hai anche insegnato chitarra dopo il college.
Si, avevo alcuni studenti e tenevo una classe di improvvisazione al San Jose State e un’altra di improvvisazioni e jazz al City College, un cosa da principiante, gli insegnanti hanno cominciato a servirsi di me come aiutante e la cosa è cresciuta da lì. L’ho fatto per diverso tempo, poi ho iniziato ad andare in tour e non ho più potuto farlo, ma mi piaceva molto. È stata una magnifica opportunità per me.
Tuo padre ti portava a concerti di blues fin da bambino e hai visto artisti come B.B. King o T-Bone Walker…
Si e mi sento talmente fortunato! Mio padre non ha mai tentato di forzarmi riguardo la musica, mi poneva solo di fronte a situazioni differenti, band e artisti e lasciava che osservassi e mi facessi la mia idea. Mi ricordo che la sera di Natale del 1965 mi disse di mettermi un bel vestito “dove stiamo andando?”, gli dissi io. Andammo al Fairground a vedere James Brown, aveva appena pubblicato “Papa’s Got A Brand New Bag”. Mi portava a vedere cose del genere. Dato che mio padre era unuomo di colore ben vestito, molti pensavano fosse con la band e perciò potevamo andare nel backstage…in questo modo ho incontrato un sacco di gente, al Fillmore incontrammo Albert King e un sacco dei musicisti che mi piacevano…Abbiamo cominciato a farlo quando avevo solo quattro anni, ogni volta che B.B. King o Ray Charles venivano al San Jose Civic Auditorium non perdevamo mai un loro concerto. Abbiamo visto Fats Domino a molti altri. Anche da bambino capivo che in quel suono di chitarra c’era qualcosa di diverso da tutto ciò che avevo ascoltato in precedenza. E B.B. era fortissimo perché ti parlava come se fossi un adulto, meraviglioso. Ho potuto vederli al loro apice. E mia mamma mi ha portato a vedere i Beatles in un giorno di scuola! I miei genitori erano forti.
Tutto questo deve averti lasciato un’impronta molto forte.
È stato incredibile! Ho visto certe cose…ricordo una volta B.B. King, Freddie King, Copperhead e i Malo al Winterland. Ero proprio davanti al palco e B.B. stava suonando “Guess Who” e aveva le guance rigate da lacrime…ero un adolescente, sapevo che dava tutto sé stesso, ma fu qualcosa di stupefacente. Era la prima volta che vedevo qualcuno suonare e piangere allo stesso tempo, mettere a nudo la sua anima. Quando l’ho visto mi sono detto “wow”. Era qualcosa che non avevo mai visto e probabilmente non si vedrà mai più.
Allora suonavi già seriamente la chitarra.
Si, ho cominciato davvero al primo anno del liceo. Mio fratello mi diede una SG standard e inizia a suonarla. Mio padre aveva tutti quei bei dischi perciò li ascoltavo di continuo. In pratica me ne stavo chiuso in camera ad ascoltare dischi tutto il tempo…tutti dicevano quel ragazzino non esce mai dalla sua stanza! Pensavo di non voler suonare di fronte a qualcun altro finché non fossi stato davvero pronto per farlo. Ho visto alcuni amici che suonavano salire sul palco con altri gruppi per suonare e venir fatti a pezzi, capisci cosa intendo dire. Non erano pronti. Non volevo esser buttato giù dal palco, l’ho visto succedere.
Dopo un po’ ti sei sentito pronto?
Sì, quando ho iniziato a frequentare il City College e incontrare altri musicisti, alcuni dei quali hanno finito per diventare parte della mia prima band, mi sono detto, “ok, ora cercherò di avere un gruppo”. Ma allo stesso tempo cercavo di essere invisibile. Però essendo a scuola ho incontrato persone simili a me e sono stato in grado di mettere insieme una band. È stato bello, ho grandi ricordi di quel periodo. Cercavo solo di trovare date attorno a San Jose, dove vivevo e di pubblicare un disco. E da lì è successo tutto, la cosa successiva è che siamo finiti a suonare in Belgio e poi ovunque. Non ero del tutto pronto dal punto di vista mentale per tutti quei tour. Ho fatto tutti gli errori possibili! Come restare alzato tutta la notte a parlare e bere con la gente e il giorno dopo ad un altro festival poi non riesci a cantare. Ho fatto cose stupide, ma poi sono cresciuto.
Sul nuovo album ha inciso un brano intitolato “Still Drinking Straight Tequila”, una sorta di seguito di un altro tuo pezzo.
Si, perché Bruce mi aveva detto, “oh peccato tu non abbia inciso Drinking Straight Tequila per Alligator, forse potresti fare un brano intitolato Still Drinking Straight Tequila o qualcosa del genere?”. Così abbiamo composto questo. Ed è buffo perché volevo avesse gli elementi di “Drinkng Straigh Tequila” ma allo stesso tempo non volevo suonasse allo stesso modo…abbiamo dovuto trovare un modo di renderla diversa.
In passato, negli anni Settanta / Ottanta, hai accompagnato altri artisti col tuo gruppo?
Oh certo, di solito suonavamo in un club chiamato JJ’s Blues Lounge a San Jose, ci suonavamo ogni mercoledì o giovedi e anche nel weekend. Abbiamo accompagnato Albert King, Charles Brown…gente che mi piaceva davvero, una grande esperienza. Così ho incontrato Albert e siamo diventati amici. I tipi del club gli chiesero “il ragazzo può suonare con te?” Disse di no. Ma io non volevo farlo, ero già felice di sentirlo suonare. Poi abbiamo suonato il nostro set ed rimasto lì davanti, riuscivo a sentire l’odore della sua pipa, gli piacevamo. Ed da lì è nata una bella amicizia. Mai, nemmeno in un milione di anni, avrei pensato che Albert King sarebbe diventato un mio amico. Ogni volta che suonavo a Memphis veniva a sentirmi e una volta portò con lui persino Otis Clay. Una cosa irreale, dovevo darmi un pizzicotto.
Eri sotto contratto per la Blue Rock’It di Pat Ford.
Pat Ford mi ha tenuto nel giro, ogni sette o otto anni mi lasciava pubblicare un disco. Gli voglio bene per questo. Quando ho visto suonare Robben sapevo suonare le cose di Peter Green, Mike Bloomfield e B.B. King e pensavo, “ok, ora il più è fatto, posso suonare”…poi ho visto Robben e nessuno suonava in quel modo, chord voicing in un ambito blues, ho pensato, “oh mio Dio!”. Era impressionante e suonava una grossa chitarra jazz. E poi quando ha cominciato a suonare con gli Yellowjackets ho pensato che fosse tra le cose migliori che avessi sentito. Per questo sono finito a suonare una 335, volevo ottenere quel suono. Ci sono stati molti chitarristi che sono stati dei fari nella mia vita.
Suoni ancora la tua 335 chiamata Melba.
Si, sembra proprio che sia l’unica che sono in grado di suonare, ho avuto altre chitarre e le ho usate ai concerti…eppure non riuscivo a suonarle, non arrivo a toccare le corde. Ma Melba è diversa. E accadono cose divertenti. Una volta ero su una Blues Cruise e il chitarrista dei Los Lobos, David Hidalgo, è venuto a vedere il mio concerto e sembrava davvero coinvolto. Il giorno dopo ero sulla nave e stavo giusto uscendo dall’ascensore con la chitarra in mano ed entra lui, mi guarda e fa “quella è Melba?” Gli ho detto di sì. Il fatto che conoscesse Melba…wow!
Anche con Jim Pugh siete amici.
Sono stato fortunato che Jimmy Pugh mi abbia lasciato fare un disco su Little Village, è stato importante. E Larry Taylor ha suonato il basso! È stato molto divertente farlo, una lettera d’amore a mio padre. Già solo il fatto che sia uscito e alla gente sia piaciuto…Kid è molto generoso, per questo i miei dischi suonano così bene.
Com’è cambiato il tuo lavoro sulla scrittura?
Oh è cambiato. Il mio primo disco era in pratica una cronaca di quello che stava succedendo nella mia vita. Ragazze, cose così…ho cambiato alcuni nomi, sai, ma il succo era quello. Poi ho pensato che non dovesse essere un diario personale, ma in generale cose che mi piacciono, che anche altre persone hanno sperimentato. A quel punto ho cominciato a cambiare. Per il primo disco ho composto la musica e poi ho continuato a riascoltarla per due o tre settimane per capire quali parole usare con quella musica. Ora penso si sia chiuso il cerchio, questo nuovo disco pensa possa smuovere qualcosa anche in altre persone e che possano comprenderlo.
Per un periodo sei stato molto in tour e poi ha rallentato?
Si ho avuto un furgone e poi non l’ho più avuto. Perciò per un lungo periodo ho suonato per lo più a livello locale, sono stato persino sorpreso di essere riuscito a tenere insieme la band con i pochi concerti che facevo. Era semplicemente così. Quando Susan Tyler è entrata nella mia vita ed ha cominciato ad occuparsi del booking il mio mondo ha assunto una fisionomia più normale. Prima non lo era. Sono già un tipo particolare, lei mi ha riportato nel mondo, altrimenti sarei ancora nella mia stanza a suonare per me stesso.
Ho letto che anni fa entrasti in contatto con Alligator ma Bruce non era interessato. Ora sei al secondo album con loro.
È buffo, stavo per fare un concerto con Guy King al Chicago Blues Festival, ero nel backstage e mi stavo preparando a salire sul palco e vedo Mr Bruce Iglauer e mi dico, “oh ragazzi sta venendo da questa parte”. In effetti arriva e mi dice qualcosa del tipo, “so che siamo partiti col piede sbagliato”, “Ero solo un ragazzo allora”, gli dico io. Così cominciamo a parlare e lui mi fa “è forte come riuscite a suonare insieme con Guy…” E una cosa tira l’altra e di lì a poco si dichiara interessato a questa registrazione che stavo facendo, “Raisin’ Cain”, che avrei pubblicato con la mia etichetta. Ma loro la volevano. E questo è stata veramente una gran cosa. Durante la pandemia avevo quasi finito i soldi e mi hanno anticipato migliaia di dollari. Sono stati eccezionali, ho detto loro che per loro attraverserei un edificio in fiamme!
Sei venuto in Italia regolarmente con il gruppo di Luca Giordano.
L’Italia è stato il primo posto dove sono stato oltreoceano dove la gente mi ha invitato a stare tra di lor. Andavo in Finlandia o Norvegia ed è diverso. Tutti quelli che ho incontrato sono incredibili, mi piacciono il cibo e la gente…è una storia d’amore con l’Italia. Luca l’ho conosciuto a Chicago, tenevo un seminario di chitarra come insegnante, Luca è venuto e mi ha detto, “vorresti venire in Italia?” Ed io ho pensato oh si certo, come no, sai la gente dice di continuo cose del genere. E poi due settimane dopo mi ha chiamato dicendo che avremmo suonato a questo festival, non stava scherzando! È un’altra bella persona che ho incontrato nella mia vita, un gran chitarrista e fa in modo che io possa venire a suonare in Italia, il che è ottimo e la gente è gentile e apprezza molto.
Cosa ne pensi dei giovani musicisti afroamericani che stanno emergendo, come D.K. Harrell che ha inciso il suo disco da Kid a Greaseland?
Penso sia fantastico! Quando ho sentito D.K. e alcuni degli altri ragazzi, ho pensato che fosse una cosa bellissima, perché non c’erano in giro tantissimi ragazzi di colore che suonavano blues, tendono sempre a metterci del rock. Non so perché ma se sento un’altra versione di “Hey Joe” divento matto. Quando ho sentito D.K. mi dicevo, “ma state scherzando?”. È una specie di versione del B.B. King anni Settanta, riesco a sentire quello che gli piace e la cosa mi rende felice. E D.K. è un tipo adorabile, trasmette gioia. Come mi diceva sempre mio padre, “se lo senti suonalo, se non lo senti non farlo”. Questo è il mio approccio. E ci sono ragazzi come Sean McDonald, Jontavious Willis, Stephen Hull…è forte che tutt’a un tratto suonino tutti questa musica. Quando sono andato a Memphis erano tutti seduti allo stesso tavolo, sono andato a prendere qualcosa da bere per me e Susan e quando sono tornato lei mi ha detto, “questi ragazzi sono davvero appassionati di chitarra, ti conoscono e gli piace il tuo stile”. Non ne avevo idea.
Oltre alla chitarra hai imparato a suonare altri strumenti come piano e sassofono. Pensi ti abbia reso un chitarrista diverso?
Penso di sì…a scuola ho capito che la sequenza di accordi è essenziale, la mappa, mi è servito molto. Penso di avere una migliore comprensione di come essere nel mio gruppo, come comunicare coi ragazzi della band per far loro capire cosa ho in testa. Suonare il piano e il sax ha aumentato la mia comprensione della musica ad ampio spettro, come realizzare un demo più velocemente, capire se diventerà una canzone o è solo una perdita di tempo…Ma non saepvo che sarebbe successo, mi piaceva semplicemente Ray Charles e lui suonava piano e sax…
Nelle note di copertina del tuo album su Little Village, Pugh cita Smith Dobson tra le tue ispirazioni.
Oh si, Dobson era un tipo forte! Ho tenuto alcuni concerti con lui e mi sono trovato per così dire in acque profonde, mi sembrava di non aver diritto di esser lì a fianco di un tipo del genere. Quando è scomparso non riuscivo a crederci. Fino a che non sono arrivato al funerale, non l’ho realizzato…teneva molti concerti ed ha avuto un colpo di sonno al volante mentre tornava a casa, è stato orribile. Era una persona splendida e un grande musicista. Quando i musicisti di jazz venivano a San Jose, Smith Dobson col suo trio li accompagnava, gente come Richie Cole, Eddie Jefferson o chiunque altro, lui sapeva farlo. Formidabile. Lavorava molto, tre concerti al giorno, e insegnava pure…se guidassi ancora forse sarei morto, sai tutte quelle ore sulla strada a notte fonda…
E Charles Brown? Era anche lui tra i tuoi eroi? Tra l’altro ebbe modo di tornare alla ribalta negli anni Novanta.
Oh certo, era fantastico! A casa mia Ray Charles, Otis Spann e Charles Brown erano i tre pianisti preferiti dai miei genitori. Il fatto che la mia band per due volte abbia accompagnato Charles Brown e i miei genitori siano venuti a sentirci…da bambino ascoltavo la sua “Black Night” e mi dicevo “caspita, che suono, che atmosfera che sa creare”. Charles Brown come pianista era eccezionale e aveva molte storie da raccontare, una bella persona. È stato bello quando Danny Caron, il chitarrista, ha cominciato a suonare con lui, si è davvero preso cura di lui ed ha fatto in modo che la musica fosse quella che doveva essere per Brown. Quello era il miglior gruppo che avesse avuto dai tempi dei Blazers, con Ruth Davies, Clifford Solomon, Danny…volevano bene e stimavano davvero Charles.
Com’è stato per i tuoi genitori vederti diventare non solo uno stimato musicista ma anche un amico di molti dei musicisti che ascoltavano?
Io ne ero molto orgoglioso e loro erano felicissimi. Erano gli artisti che mi aveva fatto conoscere mio papà. Farò tesoro di quei momenti finché avrò vita. Vedere che si prendevano il tempo non solo di salutare e andarsene…B.B. King mi chiese un plettro e non era una cosa che fosse tenuto a fare, solo per farti capire che persona era. Mi sento fortunato a parlare con loro, ho visto cose straordinarie…la prima volta che ho visto Albert King c’era anche T-Bone Walker, Albert lo ha invitato sul palco e hanno suonato insieme “Stormy Monday”. Non avevamo idea che T-Bone fosse anche lui al Fillmore West, mio padre andò a parlare con T-Bone e lui gli diede il suo numero di telefono e indirizzo, dicendogli “se passi da Los Angeles chiamami che ci troviamo”. Non viaggiavamo spesso e poi di lì a poco è mancato , ma fu una cosa incredibile. Quando mio fratello è tornato dal Vietnam ha portato molti dischi di jazz e mi sono messo ad ascoltarli nella mia stanza, il jazz mi piaceva.
Anche B.B. era un fan del jazz.
Oh sì e sai c’è un altro sistema per leggere la musica, il sistema Schillinger, che è più grafico ma è venti volte più complicato che leggere uno spartito E una volta ho visto B.B., era un po’ stanco, aveva tutte queste partiture Schillinger… leggere le note è una passeggiata al confronto. Per capire che tipo di persona fosse.
C’è qualcosa di specifico che fai quando prepari un album?
Più che altro ascolto musica…se mi sto preparando a scrivere qualcosa vado a riascoltare artisti che suonano più o meno in quello stile. Per il disco su Little Village ho studiato molto i dischi di Ray Charles per capire come la band suonava insieme. Volevo ottenere quel tipo di feeling. È il solo modo che conosco per avvicinarmi a quel tipo di linguaggio. Devi cominciare a costruire dalle basi che hai a disposizione, poi lavoro a un piccolo demo nel mio studio. Poi metto l’idea da parte. Se invece non sto lavorando a un disco mi piace ascoltare musica e sviscerare come ottengono un suono su un pezzo, è una cosa che mantiene in funzione il cervello. Anziché aspettare che arrivi un’idea. Non importa quanto pensi di essere preparato, c’è sempre qualcosa per cui non lo eri, che mischia le carte in tavola. E questo mi piace.
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