CANDICE IVORY e MEMPHIS MINNIE un duo d’eccezione

 di Philippe Prétet

In occasione della pubblicazione del suo ultimo album “When The Levee Breaks -The Music Of Memphis Minnie” (Little Village Foundation), la Queen Of Avant Soul alias Candice Ivory mette in luce una delle più grandi artiste blues, Memphis Minnie, la quale è, paradossalmente, menzionata di rado nel gotha del blues. Ivory, cantante e multistrumentista, a suo agio con piano, organo e percussioni, aveva in mente da tempo di incidere un album con il repertorio di Memphis Minnie.  Deve qualcosa dei suoi primi successi al prozio Will Roy Sanders (1934-2010), chitarrista della leggendaria band di Memphis The Fieldstones, che ama senza condizioni. Candice ha dovuto attendere prima di riuscire ad esprimere il suo giovanile talento. Almeno fino all’allineamento dei pianeti nel 2023, in concomitanza con il cinquantennale della scomparsa di Lizzie Douglas, avvenuta all’età di settantasei anni, il 6 agosto 1973. Cresciuta in chiesa e in un ambiente jazz, circondata in famiglia da musicisti maschi, cercava un modello femminile per veicolare la sua personalità. Il fattore decisivo è stato anche l’amicizia tra lei Charlie Hunter, un musicista in ambito jazz, soul e Delta blues. La sua relazione con Memphis Minnie diventa quindi naturale, quasi iniziatica, nel percorso di conoscenza di sé. Quest’atmosfera affascinante traspare sia nella scelta delle dodici canzoni, sia nelle interpretazioni personali, siamo ben lontani, infatti, da un insipido e scialbo copia/incolla. Memphis Minnie è stata un faro per lei, una sorta di “santa patrona” del blues. Il produttore Charlie Hunter ha detto, “comprendo Candice Ivory come artista e la sua musica non è monodimensionale”.  Ivory nel mettere insieme quest’album ha voluto rispettare Memphis Minnie dimostrandone la carica innovatrice. “Volevo semplicemente far risaltare la brillantezza delle sue composizioni e delle sue melodie vocali”, ha aggiunto. In cerca di una connessione con la sua mentore ha dovuto a sua volta affrontare la sfida di portare a termine un progetto in un mondo dominato dagli uomini. Determinata e convinta, risoluta e post-moderna, ha tenuto lontani i polverosi sentieri del dèjà-vu, è una bella promessa tra le blueswomen di Saint Louis, Missouri, una con su cui contare per gli anni a venire.

La tua famiglia ha radici nella cultura gospel e jazz e inoltre sei cresciuta a Beale Street a Memphis. Come sono stati quegli anni? Cosa ricordi guardandoti indietro?

Sono sempre stata a contatto con diversi gruppi, sia dentro e fuori della mia famiglia. D’estate passavo molto tempo a cantare in chiesa nei cori, con i nonni, zii e zie. Nel resto dell’anno cantavo nei cori a scuola e nella chiesa di mio padre. Ho cantato con una big band, creato un trio e un quintetto jazz all’età di quattordici anni e ottenuto un ingaggio regolare a Beale Street con una band chiamata CYC a quindici. Quel che ricordo di più è l’incoraggiamento che ho ricevuto prima di diventare una musicista professionista. Quando è diventato ovvio che la musica sarebbe stata la mia strada, tutti hanno iniziato a preoccuparsi di come avrei potuto farcela.

Will Roy Sanders Paris 2001 ph Philippe Prétet

Vieni da una illustre famiglia di musicisti, radicata nei suoni secolari e sacri di Memphis. Il tuo prozio era Will Roy Sanders, cantante e chitarrista dei Fieldstones, uno dei gruppi blues principali di Memphis tra gli anni Settanta e i Novanta. Qual era il tuo rapporto con Will Roy e come ha influenzato la tua vita?

Tutti in famiglia sanno che Will Roy era il mio prozio preferito! È risaputo. C’erano molte ragioni per questo, ma quella che mi piace enfatizzare è che avevamo un nostro mondo segreto al di fuori della famiglia. Ci conoscevamo come professionisti e come amici. La mia famiglia non conosceva davvero l’importanza del lavoro di Will Roy in ambito blues, né quanto seriamente lo facesse. Inoltre, sono tutti predicatori o molto religiosi e questo ha comportato una specie di barriera tra la nostra vita blues e tutti gli altri. Lo giudicavano severamente per le sue scelte di vita. Ma tra noi questo giudizio non c’era. Lasciavamo semplicemente che ognuno di noi fosse sé stesso nel mondo del blues e lì era il massimo! Lo portavo in macchina, lui, il mio bisnonno e alcuni dei miei cugini più vecchi a bere e ascoltare il blues. È ironico che il primo singolo del mio disco sia “Me And My Chauffeur”, visto che di sicuro da giovane ho fatto spesso l’autista!

Ci puoi raccontare un aneddoto insolito su Will Roy?

Ne ho diversi, per brevità te ne dico uno che ho saputo da un cugino alcuni giorni fa. Mio cugino Earnest lo ha visto. Il mio bisnonno, il padre di Will Roy, è stato colui che lo ha iniziato al blues e passavano molto tempo insieme. Ad un certo punto, quando Will Roy aveva poco più di vent’anni e stava suonano fuori da un juke joint mentre il padre stava socializzando all’interno (era una cosa comune, perché lo portava in giro nei nightclub e lo lasciava fuori, anche quando era un ragazzino, ha cominciato così suonare). Ebbene, quella sera c’è stata una rissa all’interno del locale e alla fine si è spostata all’esterno. Erano proprio il bisnonno e un altro uomo che se le stavano dando. Poi il bisnonno ha afferrato la chitarra di Will Roy dalle sue mani e l’ha usata per attaccarle quell’uomo, fracassandogliela in testa e stordendolo. E Will Roy era in lacrime per la sua chitarra rotta, era uno strumento nuovo che si era appena comprato. E il bisnonno a quel punto gli risponde, in una voce che riesco facilmente a sentire in testa, “Merda, ragazzo, ti comprerò una nuova chitarra, ma non hai visto che quel tizio mi stava facendo il culo?”. Sono sicura che abbia rimborsato Will Roy per la chitarra distrutta.

Candice Ivory photo Deke Rivers

 Sei cresciuta cantando in chiesa e a undici anni cantavi in un coro con la futura superstar del R&B D’Angelo. Puoi dirci qualcosa di più su quest’incontro? Sembra sia stato importante anche per la realizzazione del nuovo album.

Mio padre venne nominato direttore ministro per i giovani e i giovani adulti in una chiesa a Richmond, Virginia. Il figlio di uno dei membri andava a scuola con D’Angelo, che all’epoca chiamavamo Michael (il nome di D’Angelo è in effetti Michael Eugen Archer ndt) e venne invitato come pianista e direttore del coro. Da bambina ero solita sedermi al piano accanto a chiunque. Non era diverso con lui ed era molto gentile. Mi insegnava nuove canzoni che aveva imparato e a mia volta gliene insegnavo e talvolta le faceva cantare dal coro. Quando scrivevo una canzone mi mostrava quali accordi utilizzare per il canto. E questa attenzione era davvero significativa da un giovane, ma era davvero solo un teenager, che stava per firmare un contratto con una major. Usava i soldi che guadagnava in chiesa per comprarsi nuovi strumenti e cose del genere. Ho passato ore e ore a provare con lui imparando vari aspetti del suo approccio alla musica, anche se allora non ne ero del tutto conscia. Lui e mia madre su qualche canzone cantavano in duo, mi piacevano davvero quelle domeniche. Talvolta al venerdì sera organizzavamo delle feste casa nostra per tutti quelli del coro e veniva anche D’Angelo, si metteva anche a cucinare. Alla fine, quando ha lasciato la chiesa dopo il suo contratto discografico, il coro non ha più cantato allo stesso modo. Anche se aveva solo diciotto anni ha portato moltissimo al coro, non l’ho mai dimenticato.

Oltre a comporre e cantare, suoni diversi strumenti, piano/organo e percussioni. Da dove viene la tua passione per la musica?

Si dai miei primi ricordi, ho sempre avuto la passione per la musica. Ho sempre ascoltato di tutto. I miei genitori dovevano dirmi di spegnere la radio all’ora di dormire, perché volevo ascoltarla tutta la notte. Quasi tutti nella mia famiglia allargata sapevano cantare e anche se non sapevano farlo organizzavano dei talent e cantavano lo stesso. Ai picnic e alle riunioni di famiglia c’erano sempre i cugini e Will Roy aveva la sua blues band. I vecchi volevano vedere i bambini ballare davanti alla band. Era tutto family friendly. Mio padre suona il basso e mia madre ha una formazione classica. Poi quando ha avuto figli ha smesso di studiare ma ha continuato a cantare in chiesa. Cori e i programmi serali di canto in chiesa hanno sempre fatto parte della mia vita. C’erano diversi musicisti in famiglia e anche se alcuni suonavano musica secolare tutti dovevano essere in chiesa. Ciò vuol dire che, se il cugino Richard o chiunque altro non era in chiesa a suonare il piano o la batteria qualcun altro doveva esser pronto a prenderne il posto. E anche se quella chiesa non aveva un piano dovevi essere pronto a cantare lo stesso, a prescindere da qualsiasi ostacolo. Perciò cantare nel coro e frequentare le chiese con regolarità hanno fatto in modo che pensassi alla musica costantemente. Alle elementari ho iniziato a suonare il violoncello e poi la tromba, da allora la musica è sempre stata al centro dei miei sogni e pensieri.

Cosa significa per te Memphis Minnie (1897-1973)?

Lizzie Douglas rappresenta per me un archetipo di un mondo che comprendo, un mondo che non contempla quasi alcuna donna. Dal lato di famiglia di Will Roy sono l’unica nipote, ed è da quel ramo della famiglia che ho appreso il blues. In quella famiglia le donne avevano un ruolo molto specifico, come i personaggi neri muti nella commedia di Tennessee Williams “Baby Doll”. Li vedevi ma non avevano voce. Memphis Minnie è la mia santa patrone, per me è un faro.

 Sembra ci sia un grande feeling tra voi, è così? Come mai?

Penso di aver cercato di comprenderla, per poter meglio comprendere me stessa. Le nostre voci si sono amplificate a vicenda. Lizzie è stata in grado di navigare in un ambiente duro, non certo amichevole, venendo da un contesto di povertà assoluta del Mississippi, per divenire una delle voci più rilevanti del blues e tuttavia i suoi successi restano nell’ombra. Minnie è la nostra Frida Kahlo! Dovremmo vedere la sua immagine ovunque e dovrebbe essere impressa nella nostra mente quanto Robert Johnson e la sua foto con cappello e chitarra. Sono grata che Zora Neale Hurston e Langston Hughes abbiano scritto su di lei, perché leggerle da ragazzina ha fatto sì che potessi riconnettermi con lei da adulta. Sono una grande ammiratrice di Hurston, il suo lavoro mi ha molto influenzata. È a sua volta parte di quest’album. Ho fatto dei pellegrinaggi  sia alla tomba di Minnie che alla residenza di Zora durante la realizzazione del disco per portar loro i miei rispetti.

Rendi un tributo molto sentito a Memphis Minnie e invece di cercare di imitarla, hai scelto la strada della reinterpretazione, rendendo le sue canzoni ancora rilevanti oggi. L’intero album è il riflesso della tua visione artistica. Era questo l’intento?

Se non fossi rimasta me stessa mi avresti chiamato Lil’ Memphis Minnie e lei avrebbe riso di me, chiamandomi poser! Mi considero una surrealista del sud, per me l’arte e la musica sono tutto. Ho mangiato, bevuto e inspirato Minnie per tutto il tempo di questo processo. Volevo immaginare come sarebbe stato il suo approccio verso tutto, vita, amore, stile, vesitre…tutto. Ho pensato ai parallelismi tra le nostre vite e quali eventi abbiamo vissuto. È stata una gioia lavorare a questo progetto e penso che le sarebbe piaciuto. Ho cercato di fare in modo che queste canzoni rispecchiassero la nostra energia e le nostre esperienze.

Perché è così importante oggi far rivivere gli standard di Memphis Minnie sul tuo album, anche se non è nel gotha del blues? Dovrebbe essere un simbolo o un mezzo per trasmettere i valori della musica afroamericana nel XXI secolo?

Non c’è ragione per cui non debba appartenere al gotha del blues! Quest’album è la prova che il suo posto è proprio là ed anche nel gotha del rock. Tenendo conto delle sue influenze vocali da Louis Armstrong, possiamo dire appartenga anche al jazz. Dobbiamo fare in modo che chiunque meriti un posto nel pantheon lo abbia ed è certamente il caso di Memphis Minnie.

Candice Ivory ph Kim Bledsoe Lloyd

Un fattore cruciale sembra essere anche la tua amicizia con Charlie Hunter, un musicista con solide radici in jazz, soul e Delta blues. Per esempio “When The Levee Breaks” è riarrangiata. È puntellata da percussioni e un tocco magico. Anche “Me And My Chauffeur Blues” è reimmaginata. Stessa cosa per “Bumble Bee”, in cui c’è un groove reggae gentile, alla Taj Mahal. Per questo il tocco di Hunter è percepibile sul disco, sei d’accordo?

Assolutamente! Minnie era una chitarrista eccezionale e ancora oggi, anche musicisti in gamba fanno fatica a suonare la sua musica. Volevo che la brillantezza delle sue composizioni e melodie vocali venisse fuori. Non ho deviato del tutto dalle sue melodie, e questo è stato intenzionale. Charlie Hunter è stato in grado di portare questo approccio ad un livello superiore, grazie alle sue capacità come produttore e per aver capito chi sono come artista. Ha rappresentato Kansas Joe McCoy, una figura importante nella storia di Minnie. Aveva la capacità di scegliere ottimi musicisti e in questo caso era anche suo marito. Se  lavori a lungo con una persona devono esserci fiducia, assenza di ego e un impegno sincero. Charlie stava studiando Blind Blake mentre i studiavo Minnie, ma abbiamo entrambi un background blues che non abbiamo “promosso”. E con la squadra che ha messo insieme, DeShawn Hickman, Atiba Rorie, Brevan Hampden e Georg Sluppick c’era molto talento ed è per questo che l’album suona così bene. Abbiamo trovato una connessione su più livelli attraverso la musica, merito di Charlie come produttore, come dicesse, “comprendo Candice Ivory in quanto artista e questa musica non è monodimensionale”. Il nostro intento era di rispettare Memphis Minnie facendo risaltare l’innovazione che ha ispirato.

 La nuova generazione di musicisti blues del Sud comprende musicisti brillanti come Christone Kingfish Ingra o Trenton Ayers, che sta per pubblicare il suo primo album. Tuttavia, i giovani afroamericani sembrano meno coinvolti nel blues rispetto al passato. E di giovani donne che scelgono una carriera di questo tipo ce ne sono poche. Cosa pensi di questa situazione?

Penso che fare questo tipo di vita sia sempre stato difficile. È un mondo duro per le donne. Anche se vedo che alcuni aspetti stanno cambiando, ero riluttante a lavorare in quest’ambito proprio per questa ragione! Sono qui perché è arrivato il momento che una voce come la mia è necessaria per dar voce anche ad altre. In questo caso a generazioni di altre donne e specialmente a Memphis Minnie.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Penso che siamo chiamati a fare il lavoro per una ragione. Ed io sono qui ora proprio per questo. Sto pianificando alcuni concerti in Europa per il 2024. Nel frattempo, sono nel mio studio a provare, insegnare e dipingere. Sto lavorando su musica originale e realizzando alcune incisioni. Jimmy “Duck” Holmes mi sta facendo esplorare il blues dello stile di Bentonia e questo mi affascina molto. È davvero un mentore per questo progetto e con lui stiamo ripercorrendo alcune lezioni che ha ricevuto direttamente da Jack Owens. Materiale bellissimo. Mi è anche stato chiesto di mettere su vinile “When The Levee Breaks”, perciò sto cercando di capire come fare. Dopo la performance al King Biscuit Festival non vedo l’ora di continuare. Ci siamo divertiti molto con la band e questo mi ha spinto a scrivere nuove cose.

 C’è qualcosa che vorresti aggiungere a cui non hai risposto nel corso dell’intervista?

Grazie mille Philippe per l’intervista! L’unica cosa che non ho menzionato è quanto sia stata colpita dell’accoglienza che ha avuto questo disco. Penso che Memphis Minnie ne sarebbe orgogliosa. Io lo sono di certo nell’essere parte di un tributo ad una dea  nel nostro blues pantheon. Voglio ringraziare tutti per avermi dato la possibilità di farlo, per tutto l’amore e il sostegno. Significa davvero molto.

 


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