Quest’anno, il Black & Blue Festival di Varese (5 giorni, dal 10 al 14 luglio) si presenta con un calendario particolare rispetto alle passate stagioni. Non ci sono purtroppo grandi nomi (in passato ho visto transitare gente come John Hammond, Hot Tuna e Robben Ford) e punta su un cast di artisti, almeno per me, nuovi e su, come recita il flyer, le contaminazioni tra blues e altri generi musicali…Vista la storia del festival e, e non lo nego il gratuito per tutte le serate, concedo fiducia agli organizzatori e decido di seguirlo dall’inizio alla fine. Le prime tre serate si svolgono al chiuso in un locale molto particolare e accogliente che si chiama Twiggy Cafè; dopo una interessante presentazione del libro “Love and Emotion” su Willie De Ville ad opera dell’autore Zambellini, cominciamo con la musica suonata e con uno dei pochi volti a me noti della rassegna: Andy J.Forest. L’armonicista di New Orleans si presenta in versione solista con chitarra e armonica; la delusione di non vederlo con la sua energetica storica band viene cancellata già dai primi brani. E’ semplicemente un altro tipo di concerto, più intimo e cantautorale. Andy è un discreto chitarrista acustico (anche se basilare), padroneggia abbastanza bene la slide – è pur sempre americano – ma soprattutto anche in questa veste mantiene una presenza sul palco magnetica. Parla un ottimo italiano, racconta aneddoti, fa battute e soprattutto sfodera quell’inventiva e quella fantasia nel suonare l’armonica che lo hanno reso giustamente popolare. I pezzi sono quasi tutti suoi, e lui stesso ironicamente dice: «Ho cominciato a scrivere pezzi miei per senso di inferiorità, come potevo fare una canzone di Muddy Waters come la faceva lui?». Bella serata, peccato solo per il troppo brusio proveniente dalle retrovie. La serata successiva è decisamente insolita: presentazione di un fumetto, aperitivo in stile New Orleans e orrore orrore dj set…Il fumetto in questione è “BIOS”, in realtà un packaging superlusso di un disco di cover blues dei The Cyborgs, duo romano mascherato. Ci sono delle illustrazioni a tempera o ad olio che raccontano il viaggio nel tempo di questi due personaggi. Direi un lavoro bellissimo, soprattutto per i disegni e la storiella ben costruita ma anche per la registrazione che, se al primo ascolto mi ha lasciato perplesso, al secondo mi ha fatto battere il piedino. Insomma ci sanno fare. Tornando alla serata si è proseguito con un aperitivo piccante (abbastanza buono), e con questo DJ Vigor. Non nascondo la mia ostilità verso i dj ma alla fine, complice anche qualche birra, direi che lo promuovo a pieni voti; il set è stato infatti molto piacevole, con un taglia e cuci di funk anni ’70, qualche cosa di blues e colonne sonore di film polizieschi. Una scaletta ben assemblata e soprattutto mai scontata o banale. A casa contento e con un buon acquisto. Il venerdì è la volta di Adriano Viterbini; prima di lui un chitarrista acustico di nome Luca Pedroni che suona una specie di musica sperimentale, abbastanza funambolica. Non di mio gusto ma tutto sommato interessante. Viterbini è, in realtà, un chitarrista rock e si sente. Le sue sono più che altro citazioni dal blues, folk e ragtime. Una sua personale visione della chitarra blues strumentale. Complice il gran numero di persone e le finestre sbarrate (ci spiegheranno poi del solito vicino intollerante…), nella sala c’è un caldo infernale ma il chitarrista anche se sembra un ragazzo timido ha un groovedecisamente coinvolgente e quindi decido di resistere. E’ bravo, ci mette del suo, ripropone qualche riff vecchio stile, cita i North Mississippi Allstars e Dereck Truks… Ogni tanto pasticcia forse un po’ troppo (ma anche Jimmy Page lo faceva), però a metà concerto ha il pubblico tutto dalla sua parte. Non posso dire di aver assistito a un concerto blues, ma nemmeno il contrario, ed alla fine esco dal locale che sono diventato un suo fan e con il suo disco in mano.
Aria nuova. Il giorno seguente ci si trasferisce, finalmente, all’aperto ai Giardini Estensi; le sedie quando arrivo sono già tutte occupate, e faccio in tempo a vedere solo gli ultimi due brani di Daniele Tenca in acustico (sempre un bel concerto il suo, spingiamoli i nostri talenti!), ed è la volta di un musicista camerunense: Roland Tchakountè con la sua band. Per mettere in chiaro le cose comincia con un brano che recita “Mama Africa”, il suono è potente e lui decisamente carismatico. Durante il concerto mi rendo conto che non si tratta di musica africana che sembra blues, ma di un vero e proprio concerto rock-blues che richiama a tratti le sonorità del continente nero. Per quel suo particolare modo di cantare e qualche percussione, sembra di vedere un moderno Willie Dixon di ritorno da un viaggio in Camerun. La band francese gira a mille, con un chitarrista pazzesco (anche se a volte un po’ “tamarro”), che deve aver studiato Duane Allman da quando era in fasce. Eccellente concerto. Domenica è la serata finale, e capisco subito che sarà un concerto “diverso” dal fatto che di fronte al palco sono sparite le sedie e che l’età media del pubblico è più verso i trenta che non verso i sessanta…
I primi sono i The Cyborgs che grazie a “Bios” ho già ampiamente masticato e digerito. Escono indossando delle maschere da saldatore, e già dal primo brano entro in sintonia con la loro musica, che è uno strano mix di blues danzereccio e orecchiabile ma sporchissimo al tempo stesso. Dal vivo effettivamente sono un carro armato. Il tastierista suona anche cassa e charleston, e da ritmo e colore ad una chitarra essenziale ma incisiva. A metà set c’è anche spazio per un assolo al piano con un vecchio ragtime, eseguito però a tutta velocità con il pubblico che urla come se fosse ad un concerto dei Deep Purple. Chiudono lo show con una versione originale e tiratissima di “Death Letter” di Son House. Ottimo show, ottima musica. E’ la volta di un gruppo francese a me sconosciuto: The Scarecrow. Vengono promossi come blues-hip hop. Dopo una specie di intro voce (super riverberata) e timpano simil tribale, iniziano il vero concerto sparando questo ritmo funky decisamente ammiccante. Sono giovani e si sente, nel bene (sono carichi come delle molle) e nel male (qualche sbavatura qui e là), ma il foltissimo pubblico li accoglie subito calorosamente. Sono chitarra acustica, basso, batteria e un piccolo ed esagitato dj che è un musicista a tutti gli effetti: oltre a rappare in francese su qualche brano infatti, lancia dai suoi piatti basi ma soprattutto registrazioni di assolo di chitarra, organo e cori con gusto e tempismo eccellente. Di blues se ne sente solo a brevi tratti, ma il miscuglio non si può dire che non risulti molto “nero”. Per me un concerto strano ma, lo devo dire, sul finale non ho potuto fare a meno di ballare e sentirmi giovane pure io come quelli che avevo intorno. Una piacevolissima sorpresa. Quindi un Black & Blue molto positivo, a cui faccio i complimenti per la strada intrapresa di aprire a nuovi suoni, augurandomi però che non calchi troppo la mano in futuro diventando come alcuni grossi festival blues che di blues non hanno più nulla.
Silvio Borghi
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