Billy Price

Billy Price – Soul Singin’ – Intervista

di Matteo Bossi

“Il festival a Lucerna è stato splendido, una delle migliori esperienze musicali che ho avuto, sai all’hotel hanno persino una suite intitolata a Otis Clay! E Otis era un carissimo amico, ho imparato molto da lui. Abbiamo inciso un album insieme ed è stata l’ultima cosa che ha fatto prima di morire. Abbiamo tenuto un paio di concerti e avevamo in programma di andare in tour…ma purtroppo non era destino”. Comincia così la nostra conversazione con Billy Price, cantante soul di lungo corso, ricordando la sua performance al festival svizzero, cui avevamo assistito nel 2019, e la sua amicizia con il compianto Otis Clay. Billy Price è attivo da oltre cinquant’anni, con immutata passione per soul e rhythm and blues, evidente anche dal suo nuovo lavoro, “Person Of Interest”, uscito pochi mesi fa per Little Village Foundation.

Com’è nato il nuovo album, prodotto da Tony Braunagel? Hai lavorato con molti musicisti di spessore.

È vero, Tony ha molti contatti in California ed è stato in grado di chiamare molti musicisti straordinari per le session.

E forse per la prima volta sei autore o coautore di ogni brano di un tuo album.

Sì, è la prima volta che succede questo. Sono sempre stato un fan della musica, almeno quanto un praticante, mi è sempre piaciuto interpretare alcune delle mie canzoni preferite, a volte meno note…ma ho iniziato a dedicarmi alla scrittura solo negli ultimi dieci  o quindici anni. Quando io e Tony ci siamo messi al lavoro nel radunare il materiale per il disco, mi sono ritrovato con molte canzoni che avevo scritto, specialmente durante la pandemia ho scritto molto. Tony mi ha suggerito alcune canzoni, me ne ha portate di valide scritte da autori californiani di sua conoscenza, ma alla fine gli ho detto, “sai Tony, penso di voler incidere le mie canzoni”. E così abbiamo fatto.

Nel disco, come nei due precedenti, suona anche Jim Pugh.

Sì,  suona nei dischi che ho realizzato a Greaseland con Kid Andersen, un meraviglioso tastierista, una brava persona e un buon amico. Quando ho fatto “Reckoning” ero sotto contratto con la Vizztone e poi invece ho firmato con la Gulf Coast di Mike Zito per “Dog Eat Dog”. Io, Mike, Kid e il socio di Mike, Guy Hale, eravamo tutti su una Rhythm & Blues Cruise nel periodo in cui stavano iniziando con l’etichetta. Siamo stati tra i primi a pubblicare con loro.

Come sei arrivato a lavorare con Braunagel? Vi conoscevate già da tempo?

In realtà, prima di realizzare “Reckoning” con Kid, avevo già parlato con Tony della possibilità di lavorare a un album. Poi ho parlato con Kid e sono andato in quella direzione. Ma ad inizio 2023 ho fatto un tour in Europa con Anthony Geraci & The Boston Blues Allstars, poi abbiamo suonato ai Blues Music Awards e poco dopo a Clarsksdale, Mississippi ad un festival. Il batterista di Anthony però dovette tornare a casa per il festival e Tony venne a sostituirlo. Così io e lui ci siamo ritrovati, persino qualche giorno dopo all’aeroporto di Memphis. Abbiamo parlato e lui ha detto, “sai, vorrei ancora lavorare a un tuo disco, un giorno”. Sono tornato a casa e ci ho pensato su, ne abbiamo riparlato e abbiamo iniziato a lavorare insieme.

Lo avete registrato in California agli studi di Johnny Lee Schell.

Sì, Tony di solito lavora lì, è come un piccolo garage, separato da casa sua, a Studi City, California. Lavorano a molte produzioni insieme lì. Johnny era l’ingegnere del suono, ma ha un gran curriculum come chitarrista. Con la Phantom Blues Band, ovviamente, ma è stato anche il chitarrista per “Car Wheels On A Gravel Road” di Lucinda Williams. Ed è un’ottima persona.

Alcune delle canzoni le hai scritte con Jon e Sally TIven, col tuo tastierista o con Fred Chapellier.

Jon e Sally vivono a Nashville, lui ha prodotto anche il nuovo album di Steve Cropper. Jon ha una storia incredibile, se vai a vedere i credits su wikipedia delle cose che ha fatto la lista è impressionante. Scrivo con loro da anni, ma curiosamente non ci siamo mai incontrati di persona.

Tiven ha lavorato con grandi cantanti soul come Wilson Pickett, Howard Tate o Garnet Mimms.

Sì ed anche con Little Milton e Syl Johnson…ma per la maggior parte dei brani ho lavorato col mio tastierista qui a Pittsburgh, Jim Britton. Abbiamo scritto parecchie canzoni per i dischi fatti a Greaseland, ma Jim non suona su quest’album, l’unico musicista della mia band che ci suona è Eric Spaulding, il sassofonista. Gli abbiamo fatto fare alcuni assolo di sax. Eric era anche sui dischi precedenti, è un buon amico di Kid Andersen.

Come lavori sulla scrittura? Come viene fuori una canzone come “Crying At The Spotlight” per esempio?

Quella è una storia vera, piuttosto cinematografica in effetti. L’ho vista lì in lacrime di fianco a me al semaforo ed ho pensato, “potrei scriverci una canzone”. Cerco di scrivere a partire dall’esperienza. Ogni volta che sento una frase o un’espressione da qualcuno la annoto. Il mio tastierista mi manda di continuo idee musicali, io le passo in rassegna e cerco di adattarle ai testi. La cosa si è sviluppata da qui, col tempo. Jon Tiven mi manda delle tracce, ho venti o trenta cose sue su cui non ho ancora scritto nulla, ma “A Certain Something” e “They Knew” sono nate così. Forse faremo un album insieme. Ma mi piacerebbe lavorare ancora con Kid, ho alcune idee e mi serve solo il tempo per svilupparle.

C’è anche una tua canzone più vecchia, per quale ragione?

Sì, è una storia buffa. Suonavo nell’area di Philadelphia, nella parte orientale della Pennsylvania, a circa cinque ore da dove vivo, e questa donna è venuta al mio concerto. Era una mia grande fan, specialmente negli anni Ottanta, quando avevo la Billy  Price & The Keystone Rhythm Band. E mi ha raccontato che era solita introdurre di nascosto apparecchiatura di qualità e registrare i nostri concerti. Mi ha detto, “vuoi ascoltare alcuni di quei nastri?” Certo che volevo farlo. E questa canzone è saltata fuori da lì, ricordavo la canzone da quel periodo, ma per qualche ragione avevo smesso di cantarla…ma, ho pensato, questa è davvero una buona canzone, mi piacerebbe rifarla. Così l’abbiamo messa in repertorio con la band, l’abbiamo provata e poi l’ho fatta sentire a Tony che l’ha subito amata. Così l’abbiamo registrata e penso che ne abbiamo cavato una grande versione.

Billy Price

Billy Price Lucerne foto Philippe Prétet

Magari in quei nastri ci sono altre canzoni di cui ti sei dimenticato?

Oh è possibile ce ne siano altre come questa! Lei ha molti altri nastri. L’ultimo album che abbiamo fatto come Keystone Rhythm Band si intitolava “Free At Last”. Ricordi una band che si chiamava The Hooters? Erano una pop band e noi avevamo lo stesso manager. E lui cercava di portare la mia band in una direzione più pop. Ma noi venivamo dal deep soul. Penso abbia avuto un ruolo nel dire, “beh non registriamo questo pezzo, Mercy”. Voleva facessimo cose più upbeat, mentre “Mercy” è un brano gospel/soul, non era esattamente quello che preferiva la band incidesse in quel periodo. Al momento sto lavorando ad un video della canzone, ho già pubblicato un video di “Inside That Box” e sto lavorando con la stessa videomaker. Sai quando ho scritto “Mercy” pensavo alle relazione, in cui spesso entrambe le parti finiscono per farsi del male…ma in una relazione a lungo termine l’ideale è avere un po’ di compassione, a prescindere da chi abbia torto o ragione. Molti mi hanno fatto notare che se rendi universale il testo, allora diventa una richiesta di compassione in senso lato, per le guerre, la povertà…perciò con la regista sto cercando di inserire, in modo sottile, questo elemento.

Hai realizzato altri video?

Sì, di recente sono stato in tour in New England e ci siamo fermati in uno studio chiamato Don Odell’s Legends. Don è un ex produttore televisivo e realizza produzioni di alta qualità, davanti ad un pubblico di quaranta/cinquanta persone, perciò ho video molto buoni della nostra performance lì. Ero con la mia band più un sax baritono, Mark Earley. E in effetti un terzo strumento a fiato fa molta differenza, ma ovviamente non posso permettermi di averlo sempre.

C’è anche un tributo a Roy Buchanan.

Sì, sai il brano per cui sono più  noto, per averla cantata con Roy Buchanan, è la cover di “Can I Change My Mind” di Tyrone Davis, l’abbiamo fatta sul “Live Stock” nel 1974 o ’75. Perciò con Jim, il mio tastierista, abbiamo scritto questa canzone, “Change Your Mind”, dal titolo simile…e inoltre il suono e il feeling del brano mi ricordavano altre cose che avevo fatto con Roy, così ho suggerito a Tony che potevamo dedicare il brano alla sua memoria e avremmo dovuto trovare un chitarrista che ne fosse stato influenzato e potesse in qualche modo suonare un assolo canalizzando un po’ il suo stile. Tony è amico di Joe Bonamassa, a volte suona con lui, ha scritto un messaggio a Joe per invitarlo a suonare l’assolo e gli ha risposto di sì nel giro di un minuto. La canzone viene trasmessa spesso su Sirius XM Satellite Channel, il che è davvero una buona cosa per noi.

Negli anni sei stato coinvolto in altri tributi a Buchanan, ne ricordo uno con Fred Chapellier.

Oh sì, quello è stato il primo album che ho registrato con Fred. Quell’anno doveva anche suonare con me a Lucerna ma si è ammalato, perciò era venuto il mio chitarrista da Baltimore. Il sassofonista Drew Davis l’ho conosciuto proprio per un album dal vivo con Fred in Francia, lui vive lì. Fred ha pubblicato di recente un altro disco dal vivo, abbiamo scritto sei o sette canzoni presenti su di esso.

Come vi siete conosciuti tu e Fred Chapellier?

Fred era un grande fan di Roy Buchanan e io già molto tempo fa avevo un sito web, quando molti artisti ancora non ne avevano uno. E avevo un guestbook, dove la gente poteva lasciare un messaggio. Lui mi scrisse lì, “sono un chitarrista francese, sono un grande fan Roy Buchanan e della tua musica, mi piacerebbe che venissi in Francia un giorno”. Abbiamo parlato e gli ho lasciato il mio indirizzo, “mandami un po’ della tua musica” gli dissi. E lui mi mandò dei CD, che sono rimasti nella mia macchina per alcuni mesi prima che li ascoltassi e iniziassi ad interessarmi alla possibilità di lavorare insieme. Stava preparando un tributo a Buchanan, ho cantato un paio di canzoni e gliele ho mandate. Poi abbiamo parlato dell’opportunità di andare in Francia e negli anni credo abbiamo fatto quattro o cinque tour insieme. Abbiamo inciso un album, “Night Work”, lavorando in studio qui a Pittsburgh e poi “Live On Stage”, dal vivo in Francia, con Drew Davis al sax. È davvero bravo, ha registrato anche un album tributo a Louis Jordan, mi piacerebbe fare di nuovo qualcosa con Drew. Sono stato di recente in Francia come vocalist nella band di Anthony Geraci, è stato un bel tour.

Tornando a “Can I Change My Mind”, era anche il titolo di un tuo disco degli anni Novanta, prodotto da Swamp Dogg.

Oh Swamp Dogg! Hai ascoltato il suo ultimo album? È un gran disco e lui ha 83 o 84 anni.  Su quel mio disco era anche autore di tutti i brani, eccetto ovviamente “Can I Change My Mind”, avevamo trovato uno strano arrangiamento per quel brano. E alcune di quelle canzoni le canto ancora. È un fantastico autore, cantante, tastierista…un tipo di enorme talento. Ricordi Leon Haywood, il cantante? Ebbe un hit con “It’s got to be mellow”…abbiamo usato il suo studio a Los Angeles, Swamp Dogg ci lavorava. Ogni tanto veniva in studi e ci dava qualche consiglio ed erano tutti ottimi.

Hai lavorato con Swamp Dogg e Otis Clay e di sicuro avevi dischi di entrambi. Dev’essere stato speciale da appassionato di soul.

Verissimo. Ne parlavo con un amico proprio ieri. Ho avuto un commento su un mio video su Youtube da Jerry Jemmott, “Billy Price mi rende sempre felice”, ha scritto.  Ed ho subito pensato che troppo spesso do per scontato queste opportunità, se mi fermo a pensarci sono amico e ho lavorato con Jerry o Swamp Dogg, ero amico ed ho lavorato con Otis Clay…sono davvero fortunato e forse non sono abbastanza grato per tutto questo. Stavo per pubblicare un video dalle session da Don Odell di “Turn Back The Hands Of Time” e mi è venuto in mente di quella volta nei primi anni Ottanta, in cui suonavo con la mia band a Chicago, Otis Clay era nostro ospite, arrivò Tyrone Davis, salì sul palco con me ed Otis e tutti e tre cantammo “Turn Back The Hands Of Time”. Un momento surreale.

Billy Price

Billy Price Lucerne foto Philippe Prétet

Ricordi la prima volta che hai canato con Otis?

Oh non lo dimenticherò mai. Avevamo parlato con lui da tempo di farlo venire da Chicago per cantare con la mia band a Pittsburgh e Washington D.C., lui ha resistito per un po’ ma alla fine ha acconsentito. Abbiamo provato e tutto funzionava a meraviglia. Mi ricordo di aver cantato “Is It Over?”, che era anche il titolo del mio primo album con la Keystone Rhtyhm  Band ed era la cover di un pezzo di Otis Clay. Avere la possibilità di cantarla di fianco a lui, alternandoci nel canato…ero sopraffatto delle emozioni e quasi non riuscivo a continuare. È stata una esperienza molto emozionante.

Essendo Otis una bella persona dev’essere stato molto aperto e affabile.

Oh lo è stato, ci è solo voluto un po’ a convincerlo a venire.

Risalendo a quando hai iniziato a cantare con Roy Buchanan, com’è stato? Eri molto giovane, vent’anni o poco più, lui ne aveva dieci in più.

Sì, suonavo in piccoli bar nella Pennsylvania centrale e all’improvviso mi sono ritrovato a cantare alla Carnegie Hall o allo Spectrum…surreale. Una straordinaria occasione e un grande punto di partenza nel music business. Di questo sono grato. Incidemmo un disco in studio mal concepito, “That’s What I’m Here For”, che conteneva anche buona musica ma in generale non fu ben accolto. Ma poi mi hanno richiamato per il disco dal vivo, “Live Stock”.

Che tipo di persona era Roy Buchanan?

Era una persona gentile, piuttosto introverso e timido. Aveva parecchi problemi, non è un segreto, con alcol e droghe, perciò o era molto riservato o tutto l’opposto. Ma ci sono stati molti bei momenti con lui. Era un grande appassionato di musica, uno studente, io e lui ce ne stavamo alzati tutti la notte a bere e ascoltare musica insieme. È durata due  o tre anni. Avevo un’altra band a Pittsburgh e stavo cercando di usare la mia situazione con Buchanan per trovare un contratto, ci chiamavamo Rhythm Kings, ma non ha funzionò. Era una band più orientata al jump blues /swing, un po’ alla Roomful Of Blues…ma facevamo anche parecchia soul music. Era una buona band, con due o tre strumenti a fiato, ma non era qualcosa che interessasse alle case discografiche all’epoca.

Probabilmente negli anni Ottanta sarebbe stato diverso.

Sì, negli anni Ottanta c’erano alcune band con una base roots, sulla scia di Robert Cray, come Huey Lewis o i Fabulous Thunderbirds e il mio manager pensava ci fosse una nicchia anche per la mia band. Ma non ha funzionato.

 Anche Otis Clay ha cantato su un album di Buchanan su Alligator.

Sì, io non c’entravo nulla con questo però. Al tempo Roy era con Alligator e Bruce Iglauer o Dick Shurman conoscevano senza dubbio Otis e lo hanno chiamato per cantare “A Nicke And A Nail” con Roy. In un  altro disco hanno chiamato Delbert McClinton. Ripensandoci, i dischi su Alligator erano il tipo di cose che Roy avrebbe sempre dovuto fare. Ha avuto una carriera discografica diseguale, direi. Perché alla fin fine non sapeva bene cosa volesse fare e perciò altre persone prendevano le decisioni al suo posto, il che è sempre un errore. Di recente hanno pubblicato il “Live At Town HalL””, che è in pratica l’intera serata da cui è stato ricavato il “Live Stock”, hanno incluso tutto. Ci sono alcune canzoni che non ero proprio contento di vedere uscire, ma cosa posso farci…

Negli anni Novanta, dopo la fine della Keystone Rhythm, hai inciso una serie di dischi soul.

Ho iniziato a lavorare a Pittsburgh, che ha una tradizione jazz molto ricca e ho lavorato con validi musicisti jazz. Abbiamo pubblicato un album blues vecchio stile, intitolato “Danger Zone” e poi abbiamo iniziato a fare più musica soul e abbiamo messo insieme l’album “The Soul Collection”. Abbiamo usato un piccolo studio di qui, gestito da un tipo con il mio stesso gusto per il southern soul, di nome Don Garvin, un ottimo chitarrista. Io, Don e il mio batterista abbiamo costruito quel disco e Otis Clay è venuto a cantare un brano con me e il controcanto in altri, abbiamo usato anche Dianne Madison e Theresa Davis, le coriste di Otis. È uno dei miei dischi preferiti, ma ora è fuori catalogo.

Vista la lunga amicizia con lui è sorprendente che vi ci siano voluti trent’anni per fare un album insieme.

Sì, lui era stato su una Rhythm & Blues Cruise, quando è tornato a casa mi ha chiamato dicendo, “quattro o cinque persone sulla crociera mi hanno detto che dovrei fare un intero album con Billy Price!” Io avevo parlato con Duke Robillard della possibilità che lui mi producesse un disco, avevamo appena iniziato. Così chiamai Duke  e gli dissi, “che ne dici di un album mio e di Otis Clay?” E lui ne era entusiasta. Nell’album ci sono i musicisti di Duke del New England, lo abbiamo inciso nello studio dove lui lavorava abitualmente e poi siamo andati a Chicago per le parti vocali di Otis. Lo stesso sassofonista di cui abbiamo accennato prima, Mark Earley, ha suonato sul disco, è un vecchio collega di Duke. Delle canzoni abbiamo parlato, sapevo che Otis adorava “Love Don’t Love Nobody”, degli Spinners, penso l’avesse incisa su uno dei suoi due Live in Giappone. E la canzone è stata molto trasmessa, è di gran lunga il brano con più streaming su Spotify.

Avete inciso anche un pezzo dei Los Lobos.

Oh sì, quella è stata un’idea della mia ragazza. “Tears Of God” è una canzone splendida e sono riuscito a far avere una copia dell’album ai ragazzi dei Los Lobos quando ci siamo incontrati una volta. Non era un brano che veniva naturale a Otis, ci è voluto un po’ per farlo nel modo giusto, ma credo che ci siamo riusciti.

Come ti sei appassionato della musica soul e R&B da adolescente?

Non riesco davvero a spiegarlo…dove sono cresciuto, in New Jersey, lo stile di musica popolare all’epoca era il Doo-Wop, i gruppi vocali come i Moonglows o i Flamingos. Mi piaceva  molto il primo soul, Sam Cooke e Jackie Wilson…ero già un grande fan della music quando sono arrivati i gruppi inglese che a quel punto non ero interessato a quello che piaceva ai miei coetanei. Loro si entusiasmavano per Rolling Stones e Beatles…ottima roba, ma io ero immerso fino in fondo in Otis Redding, Sam & Dave o Wilson Pickett…Ero membro del fan club nazionale di Otis Redding, ricevevo lettere, l’ho visto dal vivo tre volte prima della sua morte. Aveva sempre grandi band e le sue performance erano impeccabili. Ho visto James Brown al suo apice molte volte e non ho mai visto niente di simile in vita mia…una cosa incredibile. Anni dopo sono diventato amico di due fratelli, Alan e Eric Leeds, Eric ha suonato il sax nella mia band. Suo fratello maggiore, Alan, era stato road manager di James Brown. Hai visto il biopic su James Brown prodotto da Mick Jagger?

“Get On Up”? Si, l’ho visto.

Ricordi il DJ bianco di Richmond, Virginia con una capigliatura afro? Quello è Alan Leeds. Alan è uno dei maggiori esperti mondiali su James Brown, ha scritto un grande libro su di lui e ogni volta che c’è  un documentario su James, Alan è coinvolto. Poi è divenuto presidente dalla Paisley Park Records e manager di Prince. Ed Eric, che appunto ha suonato nella mia band per un po’. Ha suonato per un breve periodo per James Brown per poi passare con Prince, suona su parecchi suoi dischi. Da Billy Price a James Brown a Prince!

 Sei in buona compagnia.

Oh è senza dubbio il più famoso musicista che abbia suonato con me. Siamo ancora ottimi amici. È bello passare tempo con loro, già solo ascoltarli e beneficiare della loro esperienza, che personaggio era James Brown…much larger than life! Il libro di Alan si intitola “There Was A Time” e merita davvero di essere letto. Per qualche ragione mi ha persino ringraziato nei credits. Sono stato fortunato a poter vedere molti dei miei artisti preferiti. Due che non ho mai visto e rimpiango di non averlo fatto sono Bobby Womack e Al Green. Sono un grande fan di Al Green. E anche di O.V. Wright. Con i ragazzi della mia band scherzavamo sempre dicendo che non eravamo altro che una cover band di O.V. Wright!

Hai mai cantato gospel?

Lo faccio ora, canto in un coro tradizionale a Pittsburgh chiamato Heritage Gospel Chorale, canto le parti da tenore con loro, è un gruppo di trenta o quaranta persone sotto la direzione di Dr. Herbert Jones, uno straordinario genio musicale. Vado alle prove con loro ogni settimana e canto ai concerti come un semplice membro del coro. Ho imparato molto. Sto anche imparando a leggere la musica. Dal punto di vista vocale è un coro non è un quartetto di hard gospel, ma il Dr Jones viene dal Mississippi e conosce i Canton Spiritualaires e tutti gli altri grandi gruppi gospel mississippiani. A proposito, io e Jim Pugh abbiamo parlato della possibilità di contattare Castro Coleman / Mr Sipp, lui è un tipo veramente forte. Mi piacerebbe davvero fare qualcosa con lui. Ha scritto molte hit per i Williams Brothers o i Canton Spiritualaires. Anche nei suoi blues puoi sentire le sue profonde radici gospel. Ed è  quel che apprezzo di più, questa cosa di southern soul blues. Un mio amico a coprodotto un film intitolato “How They Got Over”, sui quartetti gospel e ci sono molte magnifiche fotografie, tra cui una dei Sensational Nightingales e se osservi attentamente c’è Otis Clay!

 Hai apprezzato Marcel Smith, un cantante che Kid Andersen ha prodotto? Anche lui viene dal gospel.

Oh certamente! Sai Kid su entrambi i mii dischi ha portato i Sons of Soul Revivers ai cori e loro sono un quartetto gospel tradizionale. La cosa unica quando registri a Greaseland è proprio questa. Ed è proprio la missione della Little Village, dare un’occasione ad artisti che altrimenti forse non l’avrebbero avuta.  Solo quest’anno hanno iniziato a pubblicare dischi di artisti più noti come me, Curtis Salgado, Mighty Mike Schermer…A Jim è piaciuto il disco e io non avevo nessun contratto, lo avrei pubblicato da solo, ma lui ha detto, “facciamolo uscire su Little Village”. All’inizio dell’anno eravamo insieme a Memphis, lui  mi ha guardato e mi ha detto, “non capisco, mi piace davvero il tuo disco”. “Che vuoi dire?”, gli ho detto, “sei sorpreso che ti possa piacere un mio disco?” “No”, ha replicato lui, “è che non mi piace nulla di solito, ma il tuo disco mi piace davvero”. Era un grande complimento.

 Tieni molti concerti?

Più che altro sulla costa est, ma il problema per artisti del mio livello è trovare un buon booking agent che possa trovare ingaggi nei festival. Mi piacerebbe viaggiare più di quanto non faccia. Sono in contatto con Graziano Uliani, mi piacerebbe venire in Italia.

Da appassionato di soul, ascolti anche artisti di oggi o principalmente quelli del passato?

Ascolto molte cose…mi piacciono le cose della Daptone e della Colemine, quindi Thee Sacred Souls o Thee Sinseers di Joey Quinones, ottima roba. Oppure Aaron Frazier, il batterista di Durand Jones, ha un bellissimo falsetto, mi ricorda i Delfonics. Mi piacciono anche i California Honeydrops…perciò si anche molte cose contemporanee.


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