La straordinaria cantante e tastierista americana Beth Hart ritorna in vesti di cantautrice, dopo il suo tributo ai Led Zeppelin di un paio d’anni fa: nel farlo, si conferma come una delle voci più potenti ed emozionanti del panorama blues-rock contemporaneo. L’album in oggetto sembra segnare un punto di svolta, portando un’intimità e una varietà musicale che riflettono non solo la sua crescita artistica, ma anche la sua resilienza personale. Prodotto da Kevin Shirley, che ha già lavorato sia con lei che con Joe Bonamassa, “You Still Got Me” mette in luce un equilibrio perfetto tra forza vocale e delicatezza emotiva. L’apertura di “Savior With A Razor” vede la collaborazione di Slash, con riff di chitarra taglienti che si fondono con un piano honky-tonk e la voce ardente della cantante, in un blues-rock nella sua forma più appassionata. Subito dopo troviamo un altro ospite del calibro di Eric Gales, che in “Suga N My Bowl” costruisce quasi un intreccio con la vocalità della Hart in un dialogo sonoro che alterna dolcezza e grinta.

Ogni traccia esplora una sfumatura diversa del blues, del rock e del jazz, mantenendo una coerenza che testimonia l’abilità di Hart di trasformare le sue vulnerabilità in arte: emerge chiaramente in brani come “Never Underestimate A Girl”, quasi una canzone da chansonier, con quel pianoforte che sviluppa un groove accattivante e testi che parlano di empowerment. Con “Wanna Be Big Johnny Cash” Beth offre un divertente omaggio al country-rock, mentre con il suo pianoforte tocca forse la maggiore drammaticità in “Don’t Call The Police”, arricchita da un’altra prestazione vocale di livello assoluto.

L’ascolto di “Drunk On Valentine” ci porta in un jazz club fumoso che, con l’uso sapiente di una tromba sordinata evoca atmosfere intime e malinconiche: altra ballata superlativa è proprio la title track, una struggente dichiarazione che celebra l’amore incondizionato del marito Scott, con un arrangiamento d’archi che sottolinea la vulnerabilità e la potenza della performance vocale di Beth. Ed è con una serie di ulteriori ballads che la Hart lascia quel segno indelebile sull’ascoltatore: “Wonderful World”, scritta per la nipote, regala ottimismo e un ritornello che entra immediatamente in testa, come accade anche per la successiva “Little Heartbreak Girl”, primo singolo che ci aveva anticipato, con quel canto corale che suona fiducioso, quasi trionfante, nonostante una fragilità che permane. Lo stesso può dirsi infine per “Pimp Like That”, che regala un crescendo emozionante, prima di congedarsi con “Machine Gun Vibrato”, chiudendo l’album con un’energia che inizialmente pare quasi compressa, ma che poi esplode in crescendo. In quest’ultima opera Beth Hart ci regala uno dei lavori più completi e maturi della sua carriera, spaziando tra generi e emozioni, mostrando quella capacità non comune di mettere l’anima a nudo.

 

Luca Zaninello

 


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