Approfittando della sua breve, inattesa distribuzione nelle sale italiane del circuito The Space Cinema, avvenuta tra il 15 e il 17 aprile scorso, abbiamo visto “The Life Of Riley”, documentario di produzione inglese sulla vita di B.B. King. Diretto da Jon Brewer specialista in produzioni documentaristiche rock, il quale si è dedicato per circa due anni a questo progetto accumulando circa duecentocinquanta ore di girato. Brewer ha avuto la completa collaborazione di B.B. King, di tutti i soggetti coinvolti e degli archivi del museo a lui intitolato e aperto dal settembre 2008 aIndianola, Mississippi. Procede in ordine cronologico, intervallando le parole del Re, tratte da interviste di varie epoche, ricostruzioni con filmati e fotografie del Mississippi degli anni Trenta e ricordi di vari membri della sua famiglia.
La voce narrante, che conduce lo spettatore lungo tutto il film è quella di un altro mississippiano illustre, Morgan Freeman, che in un paio di momenti compare anche davanti alla macchina da presa per tessere le lodi di colui che definisce, a ragione, l’icona mondiale del blues. La prima parte del film è anche la più interessante: classe 1925 B.B. ripercorre la sua gioventù, nato tra Indianola e Itta Bena, comincia ben presto a lavorare nei campi di cotone, la separazione dei genitori e poi la morte prematura della madre, malata di diabete. Ricalcando, ci sembra, in falsariga quanto già raccontato da King nella sua autobiografia scritta anni fa con David Ritz “Blues All Around Me” (“Il Blues Intorno a Me” nell’edizione italiana, recensita a pag. 34 del n. 61). La fascinazione per la musica, per la chitarra e il canto, tanto che si unì ad un gruppo gospel The Famous St. John’s Gospel Singers; che sorpresa vedere apparire la nostra vecchia conoscenza, Cadillac John Nolden rievocare quei tempi giovanili e ricordare che non si perdeva neanche una loro apparizione trasmessa dalla radio WGRM di Greenwood. Il trasferimento a Memphis, dove si ritaglia man mano uno spazio come DJ e il ruolo chiave nel suo percorso, di due figure, che compaiono molto opportunamente in spezzoni di vecchie interviste, Rufus Thomas e Robert Jr. Lockwood. Dopo il successo di “Three O’Clock Blues” B.B., abituato da sempre a lavorare sodo, intraprende una indefessa attività dal vivo (364 concerti l’anno) che continua ancora oggi, seppur ridotta, alla veneranda età di quasi ottantotto primavere. La cosa gli è costata sul piano personale (due matrimoni falliti), ma la sua reputazione di musicista si afferma ad ogni latitudine degli States. Si sorvola sul rapporto con le case discografiche, non sempre limpido quanto alla gestione dei diritti, aneddottici più che altri gli interventi di Joe Bihari. Siamo agli anni Sessanta e alla scoperta del blues da parte dell’America bianca, a volte sospinta di rimbalzo a quel che accadeva da questo lato dell’Atlantico e che comunemente chiamiamo British Blues. B.B. suona al Fillmore, commovendosi per l’abbraccio che il pubblico gli riserva e con la hit sempiterna “The Thrill Is Gone” conquista le vette delle classifiche. Come era facile attendersi, in vari punti del film Brewer ha inserito brevi estratti da interviste realizzate ad hoc con vari artisti celebri (Mayall, Raitt, Cray, Santana, Clapton, U2, Rolling Stones, Guy, Trucks, Starr…) ognuno di essi racconta cosa lo leghi a King, occorre dirlo, con parole sincere, piene di deferenza e rispetto. Il resto è storia recente, l’affermazione a livello globale, i successi da solo o in collaborazione, i riconoscimenti (su tutti, crediamo, il B.B. King’s Day proclamato dallo Stato del Mississippi). Quel che rimane impresso, è il ritratto dell’uomo B.B. King, il carattere semplice, la determinazione tranquilla, la generosità e il gusto nel raccontare storie. Questo si traduce nell’immediatezza e intensità della sua musica, riconoscibile tra mille. King è stimatissimo da parenti, amici e colleghi, ne sia prova l’annuale Homecoming a Indianola, (inaugurato anni fa insieme al fratello di Medgar Evers, attivista assassinato nel ’63) proprio perché lui stesso, malgrado tutto, non ha dimenticato da dove viene. Realizzato con professionalità e affetto per il suo protagonista, “The Life Of Riley” funziona anche per l’ascoltatore occasionale di blues, malgrado la struttura convenzionale e le tante (troppe?) celebrities schierate, proprio perché riesce a rivelare la personalità di un re quasi riluttante, «sono solo un blues singer» dice ad un certo punto, ma gli appassionati sanno che non è solo questo. Segnaliamo infine che dalla Universal è stato pubblicato un doppio CD, con i pezzi che costituiscono la spina dorsale, riduttivo parlare di colonna sonora, del film.
Matteo Bossi
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