A poco più di due anni da “Outside Child”, riecco Allison Russell con, “The Returner” un nuovo album su Fantasy/Universal. Dopo circa due decadi nell’ambiente con gruppi come Po’ Girl, Birds Of Chicago col marito JT Nero o gli affascinanti progetti collettivi Sisters of The Strawberry Moon e Our Native Daughters, la Russell, col suo debutto solista, ha raccolto consensi allargati, convincendo pubblico, colleghi e music business. Di conseguenza sono arrivate nomination ai Grammy e diversi altri premi (Juno, Americana Music Association) e inviti su palchi prestigiosi, accanto ad esempio alla rediviva Joni Mitchell.
Proprio in omaggio alla Mitchell ha scritto una poesia intitolata “Our Lady Returner”, da cui in parte il titolo, ma il concetto di ritorno si applica, in questo caso, anche alla stessa Russell. Se infatti nell’album precedente rielaborava con coraggio i traumi del suo passato, il tema di questo risiede nel superamento di esso, nello sguardo al presente e nell’apprezzamento pieno di quello che la vita le dato. Come a rispondere all’interrogativo espresso in “(Where Are The) Joyful Motherfuckers?”, brano di chiusura di quel disco.
Un altro elemento ricorrente è quello femminile, una sorta di cosmica sorellanza in musica (forse anche sulla scia del progetto con Giddens, McCalla e Kiah), sono una quindicina le musiciste coinvolte nelle registrazioni, avvenute nel dicembre dello scorso anno agli studi Henson di Los Angeles. All’interno di questa “rainbow coalition”, come la definisce lei nelle note, troviamo anche Wendy Melvoin e Lisa Coleman (Wendy e Lisa ex collaboratrici di Prince), Larissa Maestro al violoncello e agli archi l’ensemble SistaStrings. Anche se poi i brani sono scritti e coprodotti dalla stessa Russell col marito JT Nero e col cognato Drew Lindsay, (sotto la dicitura dim star).
Posto che le definizioni sono sempre limitanti, Russell muove qui dal suo folk/soul (solitamente inserito nel vasto calderone dell’Americana) verso una sensibilità quasi pop e arrangiamenti più elaborati, in qualche occasione, forse, persino con qualche stratificazione di troppo. Una gamma di colori dalle tinte ora accese, ora con sfumature pastello ricopre questi brani, in cui i cori e gli archi tendono a rivestire un ruolo primario nella sonorità, si pensi alla ballad “The Returner” o a “Snake Life”, dall’eloquente finale, “to weave a world where every child is safe and loved and black is beautiful and good”.
Un paio di altri episodi sembrano invece destinati ad una pista da ballo anni Settanta, “All Without Within” e ancor di più “Stay Right Here”. Tra i momenti più ispirati c’è senz’altro “Eve Was Black”, un brano per contenuto, un inno alla blackness, e per svolgimento avrebbe ben figurato anche in “Our Native Daughters”. Solenne la conclusione affidata a “Requiem”, con uno sguardo empatico ancora all’infanzia, “bullets fly faster than mother’s lullubies”. Un album che guarda alla black music in modo trasversale e che potrebbe piacere, per esempio, a chi ha apprezzato certe cose più recenti di Valerie June o l’ultimo di Rhiannon Giddens , meno forse a chi predilige un approccio più radicale.
Matteo Bossi
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