ERIC BIBB Dear America cover album

Etichetta: Provogue/Mascot Label Group (USA) – 2021

 Non poteva essere più esplicito di così, Eric Bibb, che da tempo ormai guarda all’America col vantaggio di chi osserva dall’esterno il suo paese, di stanza a Stoccolma, ma newyorkese di nascita. “Dear America” è la sua personale corrispondenza, né mai così lontano da non essere emotivamente coinvolto dalle vicende della sua “Cara America”, vissuto negli USA fino agli anni Settanta, ma altrettanto consapevole di cosa possano rappresentare tuttora gli States per un nero, nonostante la sua insolita migrazione transoceanica “in direzione ostinata e contraria”.

Mai così distante quindi, che anche in quest’ultimo lavoro il suo punto di vista gode della commistione tra il distacco razionale dell’outsider e quella compartecipazione emotiva da insider, a nutrire la scrittura di queste tredici tracce con la chitarra in una mano e la bandiera americana nell’altra (un altro messaggio, più evocativo che mai, la foto in copertina). E non è un caso che il titolo suoni come quello di un documentario BBC di qualche anno fa, “Dear America: Letters Home From Vietnam” (1993) dove a scrivere “a casa” con una focalizzazione loro malgrado privilegiata, al contempo dentro e fuori delle “cose” americane, erano i marines, le cui missive rievocano la perdita dell’innocenza, che di quell’America ne infranse il sogno.

Erano gli anni di Martin Luther King e della marcia di Selma (a cui prese parte pure Leon Bibb, padre di Eric) così come oggi, mentre questo disco esce, a vent’anni dall’Undici Settembre, sono i giorni della ritirata americana dall’Afghanistan. Cos’è cambiato? Sembra domandarlo anche il “nostro” bluesman d’adozione, a quella vecchia casa a stelle e strisce d’oltremare, come una lettera stesa a più mani nelle numerose collaborazioni dell’album, ove gli intenti superano i comunque validissimi risultati.

È infatti un disco di duetti, “Dear America”, in cui sapientemente Bibb intreccia a volte un encomiabile manierismo sonoro ad un sempre grande messaggio politico. E non lo fa certo per attirare l’attenzione, di chiamare a raccolta i molti, ma è per migliorarne la qualità compositiva che coinvolge amici e collaborazioni professionali in una realizzazione talora fin troppo levigata. Non lo è certo l’incantevole arpeggiare sussurrato in apertura da “Whole Lotta Lovin’” , col contrabbassista Ron Carter di ritorno in “Emmets Ghost”, dedicata ad Emmett Till, assassinato per motivi razziali in Mississippi.

E non lo sono neppure “Born Of A Woman”, coll’edificante intervento gospel di Shaneeka Simon per un testo sulla violenza di genere, quanto la hit del disco “Whole World’s Got The Blues”, assieme all’hendrixiano Eric Gales: sporca e pastosa come il fango del Delta. Neanche la title-track lo è, in quel parlato d’intro tra fife & drums alla Otha Turner e poi il brano più blues del lotto, da solo il manifesto di un album di cui ne è anche la traccia più riuscita. Lo sono invece la ballad “Tell Your Self” in echi di folk d’oltremanica, come in chiusura la “Loves Kingdom” con Tommy Sims, decisamente funky, o con Lisa Mills, quasi pop e “natalizia” come potrebbe esserlo una canzone d’amore, “Oneness Of Love”.

Il resto è un prezioso tesoro, le cui gemme son fatte anche di R&B (“Different Picture”, con Chuck Campbell); soul (come se “White And Black” fosse rubata ai Blind Boys Of Alabama) e grande blues (“Talkin’ Bout A Train”, part 1 & 2, con Billy Branch) come black – music a tutto tondo, di cui ancora una volta, nei suoi risvolti sociali, Bibb ha saputo coglierne la funzione più importante e profonda.

Matteo Fratti

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