Non appena decriptato il nome della band, nato dalla fusione di quello della cittadina della Tanzania Bagamoyo da cui partivano gli schiavi per il Nord Africa e gli Stati Uniti ed il Mojo di estrazione blues, abbiamo ritenuto indispensabile darvi conto della loro entusiasmante seconda uscita pubblica tenutasi il 6 aprile al Nuovo Teatro di Soragna (PR). E lo facciamo volentieri, perché da molto tempo, forse troppo, non ci capitava di dover scrivere in maniera così positiva di un concerto, fosse esso di un artista italiano o straniero. Dobbiamo dire subito che il duo Paul Venturi & Max Sbaragli, dopo il più che convincente debutto discografico con “Cold And Far Blues” (“Il Blues” n.114), confermato dalle esibizioni live che ne sono seguite, con la creazione dei Bagamojo hanno realizzato un sogno che conferma la qualità delle loro ricerche sonore.

Paul Venturi (foto Marino Grandi)

Infatti, se la presenza del percussionista Dudu Kouatè segna il punto pratico dell’avvenuta saldatura tra il blues e l’Africa, ciò che ha formato l’ossatura portante dello show è stata la fusione musicale operata da Venturi e Sbaragli, che ha cancellato le distanze tra le due musiche dandone origine ad un’altra in grado di ospitarle entrambe. Ma in questa dimensione, in grado di accogliere in sé queste “vecchie musiche”, hanno trovato posto, senza stonare le prime e senza essere preponderanti le seconde, sia le matrici strumentali antiche che pedaliere moderne e basi preregistrate. Abbiamo quindi ascoltato questo afro-blues (neologismo di comodo) che ha avuto punte di assoluta eccellenza nelle riletture di “God Moves On The Water”, diversissima ma coinvolgente ancora più della versione presente nel predetto album, di “Hard Time Killing Floor”, possente nel ritmo marcato su cui hanno svettato il breve ma straordinario intervento vocale di Stephanie “Ocean” Ghizzoni ed il chitarrismo africano di Venturi.

Max Sbaragli (foto Marino Grandi)

Altrettanto rimarchevoli si sono rivelate, questa volta tra le nuove composizioni, “Green Onion Woman” in cui la cigar box di Paul recita la parte del leone, “Please Come Home” dove la voce intensa di Venturi è ben sostenuta dal basso di Sbaragli, “Fair Man Blues” il cui intro blues si scioglie in sonorità afro, mentre il trascinante “Memphis Downtown Boo” rappresenta con il suo percorso irto di extrasistole il ricordo musicale del primo incontro sul campo tra il blues e Paul nel 2007 a Memphis. Chiusura del concerto con, come lo ha definito Venturi stesso, «l’inno del Mississippi», ovvero “Goin’ Down South”, ma riproposta, con cigar box e slide, spogliata di quella modernità che le ultime riletture le hanno aggiunto e ricondotta quindi alla sua corrosiva arcaicità primitiva. Centrati anche i bis, dove all’intensità di “Another Man Done Gone”, con ancora Stephanie sugli scudi, ha fatto seguito la gioiosa rilettura in pieno stile New Orleans di “Iko-Iko”.Se quindi i complimenti vanno a tutto l’ensemble, ci sembra lapalissiano indicare quali assi portanti del gruppo la classe esecutivo-compositiva di Max Sbaragli e la creatività di Paul Venturi che, partito dal blues prebellico, sta mettendo a fuoco come, nel giro di pochi anni, il suo instancabile lavoro di ricerca musicale finisca per rendere la sua forza interpretativa fonte assoluta di emozioni continue, diverse ma sempre personalissime, uniche e indistruttibilmente blues.

Marino Grandi 

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