Passano gli anni, e 25 son tanti, si succedono le gestioni, ma al Magazzino di Gilgamesh, storico locale torinese, sempre risuona il blues mentre l’entusiasmo e la simpatia dei suoi patron è la ferrea regola. Tra febbraio e marzo il piccolo club, sfruttando al massimo le sue possibilità e dando fondo a tutte le risorse, ospita il Festival Blues, che quest’anno approda alla 9° edizione. In cartellone una interessante infilata di artisti blues locali, nazionali ed internazionali in grado di soddisfare tutti i palati perché esprimono tutte le sfumature della “Musica del Diavolo”. La serata di giovedì 5 marzo porta sullo storico palco di piazza Moncenisio 13 bis, due band. Apertura affidata a Eight O’clock Blues Band: Fabio Giua, Angelo Vergnano Roby Carbonari e Gabriele Fabiettus appaiono quadrati e compatti alla meta, che dal 2003, anno della loro formazione, è divulgare il verbo del blues in tutte le sue accezioni. Un profilo filologico di certo incoraggiato da Andrea Scagliarini, professore di nome e di fatto dell’armonica (e non solo) che da tempo collabora con loro.

Foto di Claudio Togni

Foto di Claudio Togni

Andrea l’ho visto crescere, o, meglio, sentito crescere, e sono testimone dell’evoluzione del musicista. Tecnica e personalità oltre la frequentazione assidua della grammatica del blues,  hanno amplificato e ampliato gli orizzonti del suo soul. Canta pure, sfoggiando una bella personalità.Chitarre pulite e puntuali, forse fin troppo, sorrette dalla ritmica martellante inanellano una scaletta ben assortita su cui personalmente sceglierei “Bring It On Home” scaturita dalla fervida mente di Willie Dixon per l’armonica di Sonny Boy Williamson. Rapido cambio palco per la stella della serata,  Kenny Brawner. Il cantante, pianista, compositore, classe 1944, da Augusta, Georgia è accompagnato da Luca Tozzi alla chitarra e Pablo Leoni alla batteria.

Foto di Claudio Togni

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Voce giusta, roca quando vuole, limpida all’occorrenza come il suo bagaglio di attore gli ha insegnato. Già, perché il nostro, attore lo è davvero: un artista a 360°, lo sottolinea innanzitutto sul suo profilo di Facebook come prima sua qualità; ma assistendo allo show, il modo di muoversi, di accennare a qualche passo di ballo e di interloquire col pubblico lo rivelano ampiamente. Suona il piano elettrico in modo molto percussivo, accentuando l’aspetto ritmico quasi avesse tra le mani un hammond: strategia quindi che esclude la necessità di un basso. Chiaro da subito, quindi, che l’interlocutore di Kenny sarà la chitarra di Luca Tozzi. Una elettrica importante e autorevole, lancinante e lirica tanto da, udite, udite, ricordare Carlos Santana. Il tutto supportato dalla poderosa e potente batteria di Pablo Leoni, mai però invasiva. Un repertorio davvero molto variegato fatto di brani noti, pietre miliari della musica nera, ma anche di composizioni originali.

Foto di Claudio Togni

Foto di Claudio Togni

Il secondo brano infatti è a firma di Mr Brawner e racconta delle pene d’amore su un tappeto armonico ritmico vistosamente soul. Colpisce la predilezione per brani piuttosto lunghi che permettono ai musicisti di mettersi in mostra acuendo le loro qualità interpretative e improvvisative. Brawner suona e canta di gusto e si sbizzarrisce a sfoggiare illustri ed espliciti  riferimenti al passato sul suo piano elettrico. Apre un brano accennando a “Baby Please Don’t Go”, ma immediatamente attacca con “I got a woman”: chiaro e limpido il riferimento a Ray Charles che Kenny ha scelto come suo mentore. Ma man mano che il concerto procede gli atteggiamenti del musicista statunitense virano anche a stuzzicare il ricordo di un altro suo ispiratore, si tratta di Stevie Wonder, scelto tra l’altro per il primo bis. Occorre sottolineare però come gli illustri riferimenti non sono vuote  imitazioni, ma al limite, segno di una autonomia artistica che Brawner indubbiamente possiede, solo punti di riferimento. Tra un lentaccio, un blues nel rispetto della tradizione e un brano funky il concerto procede in modo piacevole e vario fino a un set acustico che regala un prezioso cameo in cui la batteria è sostituita dal washboard suonato da Pablo Leoni. Se si chiudono gli occhi gli accenti ritmici sembrano quelli prodotti da un perfetto ballerino di tip tap.

Foto di Claudio Togni

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Arriva quindi la bellissima la versione di  Crow Jane”, apparentemente spensierata canzone scritta da Skip James. uno dei personaggi più illustri ed influenti della storia del blues; introducendola, Kenny spiega il testo in codice: dietro il racconto dell’odio per la donna amata, con una metafora in realtà prendeva ferocemente di mira Jim Crow autore delle infami leggi razziali. E lo stesso titolo, con un gioco di parole ridondanti, ne richiamava il nome. Il concerto chiude con il sedicesimo brano in scaletta in un crescendo ben costruito che sul finale permette al protagonista di gigioneggiare da attore consumato. Per i bis la prima scelta e “Higher Ground” di Wonder e rappresenta forse l’unica caduta di stile dell’intera serata, perché ne esce una versione poco convincente e piatta. Gran finale con tutti i musicisti di Eight O’clock Blues Band richiamati sul palco. Ma come ben si sa, la generosità è la prima prerogativa del blues.

 

 

Marco Basso

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